A mille giorni dall’inizio del conflitto in Ucraina, il nunzio apostolico, arcivescovo Visvaldas Kulbokas, ha raccontato ai media vaticani come la Chiesa non smetta di infondere speranza alla popolazione che soffre per l’aggressione militare russa. La conversazione ha avuto luogo alla vigilia di un nuovo massiccio attacco missilistico russo sul territorio ucraino, con danni alle infrastrutture e ulteriori vittime civili.
Per aiutare le persone a coltivare la speranza è necessario alleviare il loro dolore accompagnandole nel dare senso a questa esperienza. Come è stato svolto questo compito dalla Chiesa in Ucraina in questi 1000 giorni di guerra?
Penso non soltanto alle persone che vivono nei territori sotto il controllo del governo dell’Ucraina, ma anche a quanti sono fuori questi territori e soprattutto ai prigionieri. Aiutare queste persone è molto difficile perché rimane solo la preghiera, è l’unica forza. Ma ho tanta fiducia, perché sono consapevole che la preghiera può fare dei miracoli. I pastori stanno accanto alla propria gente e questo è il dono della Chiesa cattolica e anche di altre Chiese e comunità di fede. Ho visto questo, per esempio, a Kherson dove ho sentito storie dei sacerdoti che sono rimasti praticamente gli unici punti di riferimento per la gente e per questo la gente è molto grata ai sacerdoti. È molto importante anche l’azione dei cappellani militari perché i soldati spesso non sanno se l’indomani saranno vivi o no e lì la domanda del senso della vita è ancora più acuta. Ho sentito diversi racconti di volontari che portano i medicinali ai soldati che spesso sentono dire dai militari: “Per me sei come Gesù, perché sei arrivato fin qui a portarmi le medicine”. Nel 2024 ci sono stati più morti rispetto al 2023. La sofferenza aumenta e per questo è molto importante dare senso, il senso cristiano di fronte all’insicurezza e alla paura.
Quale senso viene dato dalla gente in Ucraina ai giorni che passano dall’inizio dell’invasione russa?
La guerra continua così tanto tempo e c’è un senso di sfiducia. Sfiducia perché il mondo ha organismi che poi si rivelano strutture non adeguate, incapaci di risolvere qualcosa. Riguardo ai prigionieri, i loro familiari mi ripetono sempre: “Ma le Convenzioni di Ginevra quali effetti hanno? Qualcuno è capace di visitare i nostri prigionieri o no?”. I fatti ci dicono di no, non si riesce ad applicare o far applicare le convenzioni. Quindi c’è molta delusione per come l’umanità in quanto tale affronta questa problematica, evidentemente non solo qui in Ucraina ma anche in altre parti del mondo. C’è un grande senso di sfiducia, di stanchezza. Però qui, a Kyiv, siamo sopraffatti da tante questioni e spesso non si riesce neanche a tenere il conto dei giorni che passano. Personalmente, il prolungarsi della guerra mi rende più in grado di capire le illusioni a cui spesso ci affidiamo.
Com’è la situazione umanitaria nel Paese. Quali sono i bisogni più urgenti in questo periodo?
Ci sono varie fasce di bisogni. Per esempio, gli ex prigionieri o i bambini che ritornano nel Paese e hanno bisogno di famiglie o strutture che li accolgano. Perciò una delle questioni è vedere quale diocesi o eparchia, quale congregazione religiosa ha le possibilità di accoglierli. Un’altra sfida è quella di coordinare gli aiuti umanitari perché nel 2024 sono diminuiti in modo drammatico.
Ci sono aspetti del servizio della Chiesa che, secondo lei, sono emersi in modo particolare nel contesto della guerra?
Certamente, ci sarebbero vari aspetti da affrontare. Uno lo abbiamo affrontato con un pastore protestante. Abbiamo parlato del fatto che nel contesto della guerra è molto importante cercare il modo per stare uniti. Non si possono risolvere tutte le difficoltà che esistono tra le varie confessioni e comunità, ma è molto importante dare rilievo a ciò che ci unisce. Un altro aspetto molto importante è che la Chiesa e le Chiese svolgono il ministero di coscienza, sono voce della coscienza. È un ruolo difficile, ma è uno dei servizi principali della Chiesa, essere la voce della coscienza, cercando di capire con quali parole appellarsi.
Lei ha incontrato molti parenti dei prigionieri e delle persone scomparse. Cosa li aiuta a non cadere nella disperazione?
I parenti hanno bisogno di molto sostegno spirituale. Quando li incontro, gli dico: “Quando pregate per i vostri cari, oppure se non siete credenti, quando pensate ai vostri familiari la preghiera oppure anche il semplice pensiero si trasmette, arriva”. Ho sentito dei racconti degli ex prigionieri di guerra che dicevano che stavano pensando di suicidarsi per la disperazione o per le torture, però li salvava il pensare a Dio oppure ricordando i propri cari. Lo sappiamo che la preghiera o il pensiero arrivano, per così dire fisicamente, ai parenti e li incoraggiano. Però, c’è bisogno di accompagnare questi parenti in modo più strutturato. Non c’è ancora un lavoro sufficientemente ben fatto per l’accompagnamento di queste persone: c’è bisogno di specialisti, psicologi. A volte quando i familiari di prigionieri vengono a incontrarmi, anche il semplice parlare e sfogarsi, per loro è importante. Solo che è difficile abbracciare tutti, si tratta di migliaia di familiari perché ci sono migliaia di prigionieri. Ci sono iniziative anche della Chiesa volte a preparare i sacerdoti e i volontari delle Caritas per assistere queste persone. È sempre una grande gioia vedere gruppi di persone che continuano ad arrivare qui da vari Paesi: dall’Italia, dalla Polonia, dalla Francia, dalla Germania. A volte portano dei piccoli aiuti perché sono persone semplici. Le visite dei gruppi di preghiera o dei volontari portano gioia perché fanno credere che c’è cuore, c’è umanità e questo infonde speranza. La guerra è diabolica anche perché vuole uccidere la fiducia nell’umanità. La testimonianza dei volontari e di chi viene qui crea un contrasto mostrando che c'è cuore, attenzione, preoccupazione, umanità. E ringrazio ciascuno di loro per le iniziative che realizzano.
di Svitlana Dukhovych