«I personaggi di Kafka cercano continuamente una tana sicura nell’impossibilità di trovarla: sempre sulla soglia, tra l’interno e l’esterno. Ma soprattutto, in ogni momento, si trovano nella situazione di essere accusati e chiamati costantemente, senza sapere da chi e perché: nella situazione di essere esattamente “in debito”. De-habere, non hanno: non hanno tana, non hanno la loro accusa, non hanno la loro funzione. Sono perennemente in debito, e ne hanno vergogna. Il protagonista del Processo muore di vergogna, perché è costantemente in debito. Ma non è questo il nostro sistema, che pone tutti costantemente in debito, anche economicamente parlando? Non è questo il problema? Essere in debito? Interi Paesi in debito? E nessuno mai che rimette i debiti, nessun Giubileo».
Così Massimo Cacciari, lo scorso 18 luglio, alla Biblioteca europea di Roma. L’incontro verteva su Utopie, fantascienza, distopie. Un’intuizione felice, quella di Cacciari, di annoverare in modo quasi “blasfemo” — è lui a dirlo — Kafka tra i grandi autori “distopici” del Novecento, caratterizzati da un immaginario «paranoico» ma che va preso «tremendamente sul serio»: perché la remissione del debito è un tema così centrale che non può essere ignorato.
Lo è anzitutto nelle parole di Cristo, tanto esplicito che ne siamo quasi assuefatti, dimenticandoci della loro potenza: «dimitte nobis debita nostra».
Ma ancora più tremendamente serio e problematico è quel “kai” che la più recente traduzione del Padre Nostro in italiano ha rimesso in evidenza: «ut et nos dimittimus debitoribus nostris», e che istituisce un rapporto tra il nostro grado di remissione e il Suo.
Le Sue parole e parabole sono piene di debiti condonati: «Un creditore aveva due debitori; l’uno gli doveva cinquecento denari e l’altro cinquanta. E poiché non avevano di che pagare condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?».
È la sorpresa di una remissione “indebita” a provocare la risposta dell’amore. Anche qui, economicamente misurato, nella paradossale, ma non distopica, domanda del Signore: «Chi lo amerà di più?».
Il poco e il molto, il 30, il 40, il 100. Il tesoro nascosto nel campo. L’errore di calcolo: «Stolto, questa notte ti sarà chiesta la tua vita. E quello che hai accumulato, di chi sarà?». L’invito a dare in prestito senza pretendere di riavere. La remissione di fronte alla condanna: «Perdonali, perché non sanno quello che fanno».
Il debitore è intimorito, vive nella paura. E il sistema — aggiunge Cacciari nel suo intervento — per funzionare deve inoculare la paura, il senso di un pericolo imminente e continuo. Paradossi e distopie che oggi sono pane quotidiano. Perché il “padrone del mondo” non prevede nessun Giubileo.
Nella tradizione ebraica, il Giubileo comportava la restituzione all’antico proprietario di ogni bene venduto e comprato nei 50 anni precedenti, la liberazione degli schiavi, un ritorno allo status quo ante che azzerasse i conti impedendo la concentrazione dei beni nelle mani di pochi. L’orizzonte possibile della cancellazione del debito. Il riscatto del servo: la parola “redenzione” etimologicamente significa proprio questo. E così la intende Paolo scrivendo ai Colossesi: dopo la frase che nel famoso Racconto dell’Anticristo di Soloviev lo staretz Zosima cita rivolgendosi al “padrone del mondo” («È in lui — Cristo — che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità»), Paolo conclude dicendo che Cristo ha annullato «il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce».
di Giovanni Ricciardi