Un uomo dalla parte
«Lo sguardo di un missionario che sperimenta, innanzitutto su di sé, la potenza della misericordia di Cristo. Uno sguardo non fondamentalista, ma lieve, pieno di quella speranza che non delude perché riposa in Dio. Sempre aperto al sorriso».
Non ci sono parole più adatte di quelle usate da Papa Francesco, nella prefazione al libro Il mio testamento, per disegnare il profilo di padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita che domenica prossima compirà 70 anni e di cui non si hanno più notizie dal 29 luglio 2013 quando venne visto per l’ultima volta a Raqqa, nella sua Siria. Quello era il Paese che aveva scelto a 28 anni, partendo da Roma, rimanendo folgorato in particolare da Deir Mar Musa, il monastero di san Mosè l’abissino, abbandonato da secoli nel deserto e di cui aveva letto in una vecchia guida della Siria. «Sono venuto qui da quel sentiero lassù, unico sentiero di accesso, un pomeriggio d’estate del 1982».
È il racconto che lo stesso religioso fa e che si ritrova nel docu-film di Fabio Segatori, Padre Dall’Oglio, domenica, 17 novembre, sarà proiettato al cinema Adriano di Roma. Una sorta di regalo per padre Paolo e per quanti lo hanno conosciuto e stimato.
Il regista, in un intreccio di testimonianze, interviste, repertori fotografici e audiovisivi originali propone la parabola di un uomo profondamente libero, la storia di un’avventura umana che intende offrire un messaggio alle giovani generazioni.
«I ragazzi — spiega Fabio Segatori — guardano agli influencers, ad una realtà parallela che è il web e che sembra essere più importante e più attraente della realtà vera, fisica. Non sanno che si può anche vivere in modo eroico. Questa è un’epoca nella quale non è vietato osare, si può fare una vita eroica e questo bisogna dirlo, perché non si vive solo di cantanti, di attori, di fashion stylist, di chef. Io sono democratico e tollerante, va bene tutto per me, non sono un bacchettone, ero punk da ragazzo ma è necessario dare spazio anche a chi spende la vita per gli altri. Esistono anche quei modelli. Esiste anche questa possibilità per i ragazzi, quella di spendere la propria gioventù in modo diverso».
Padre Paolo in fondo ha colto questa possibilità, lo ha fatto vivendo il suo tempo ma cogliendone anche la trascendenza, lo ha fatto coinvolgendo i suoi amici e chiedendo di passare l’estate a rimettere in piedi un monastero abbandonato, sporcandosi le mani e spezzandosi la schiena. «Che ci guadagnavano? — si chiede il regista — erano speciali?».
Fabio Segatori insiste nel dire che quella di padre Paolo e di molti altri che hanno animato Deir Mar Musa «non è una storia medievale, è la storia di un nostro fratello maggiore, una storia clamorosa per raccontare la quale ho fatto un lungo lavoro di studio».
Ci sono infatti voluti due anni per realizzarla ma la connessione tra lui e il gesuita era davvero scontata perché Segatori, ad esempio, a 25 anni era partito organizzando una spedizione in Turchia, autofinanziandosi, per realizzare un film su un testo di san Giovanni della Croce, Il corpo della Cappadocia. Si trattava di raccontare la storia di Kaymakli, una città sotterranea su sette piani dove le comunità paleocristiane si nascondevano per difendersi dalle persecuzioni.
«Da lì è nata questa passione, questa curiosità, questa ossessione, questo filo — spiega — cominciato allora e che prosegue con questo film sul padre Paolo, tanto è vero che le immagini del deserto che aprono il documentario sono tratte proprio da quel film che girai nel 1987 in Turchia».
Deserto e trascendente sono dunque gli anelli di congiunzione di due vite che non si sono mai incrociate. «C’è qualcosa che attrae in questa riduzione all’essenza, del paesaggio, dell’orizzonte e che è una cosa che io sento profonda da sempre e che mi ha spinto a leggere fin da ragazzo i testi della mistica orientale, occidentale».
«La figura di Paolo è talmente forte, talmente importante ed è talmente denso lo spessore delle persone che hanno interagito con lui, che lo hanno seguito nel deserto, che era doveroso raccontare perché sono vite possibili nella contemporaneità».
Persone come Elena Bolognesi, la sua prima seguace, che a 21 anni lavorava in Fininvest e sceglie di mollare tutto per vivere sette anni nel deserto, unica donna tra gli uomini.
«Non c’era il frigo, non c’era l’elettricità — racconta suor Elena nel docu-film — facevamo un riciclo continuo», la poca acqua usata per lavarsi, la tinozza messa per raccoglierla e dove in ammollo c’erano i vestiti infine quello che restava veniva buttato nel bagno.
Una scelta che immancabilmente affascina molti, il monastero di padre Paolo diventa meta di circa 50mila persone l’anno, i musulmani che accorrono lì vivono insieme ai loro fratelli cristiani una spiritualità che si fa ascolto senza resistenza, esercizio di pazienza, dialogo come un cantiere dove si va incontro all’altro spostando le pietre d’inciampo, dove si sperimenta l’amore, condizione per la conoscenza.
«Paolo, uso il presente non a caso, è un uomo libero e quindi come tale — sottolinea Fabio Segatori — non rispetta gli steccati, le appartenenze, non fa giochi di posizione, non ama le contrapposizioni, è difficile incasellarlo. È libero fino alla fine, anche quando è scoppiata la guerra civile in Siria, lui ha sentito di mettersi dalla parte dei più deboli, delle persone che manifestavano a petto nudo per far vedere che erano disarmati». Il regista racconta che il suo assistente al montaggio diceva che padre Paolo non era solo un prete ma «un uomo che sta dalla parte della giustizia».
«È un uomo — aggiunge — che spende tutto quello che ha e anche di più fino ad arrivare a sacrificare la propria vita per gli altri, per il dialogo. Una cosa mi ha impressionato nella sua disarmante semplicità, tra le tante parole bellissime di Paolo diceva che noi dobbiamo lavorare semplicemente per un buon vicinato.
È un suggerimento per ognuno di noi, nei condomini, nella vita di tutti i giorni, nei supermercati, sarebbe molto bello se uno avesse uno spirito d’animo positivo, aperto, di ascolto nei confronti dell'altro».
Raccontare quest’uomo profondamente libero significa usare come paesaggio il volto delle persone che gli sono state accanto, cogliendone le emozioni e soprattutto la gioia che Paolo ha donato.
Una gioia di cui parlava pensando alla fine della vita: «Io dico: la nostra vocazione nel contesto musulmano — scriveva il gesuita — dovrebbe essere adornata da una risata di gioia. E sia giorno di gioia, se Dio vuole, il giorno in cui gusteremo l’offerta finale per Gesù, e chiediamo questa grazia; perché è una grazia che nessuno può attribuirsi».
di Benedetta Capelli