· Città del Vaticano ·

La richiesta degli ex ostaggi israeliani ieri a Roma

Subito un accordo
per la liberazione
dei prigionieri a Gaza

Yelena Troufanov, one of the hostages released by Hamas, holds a poster showing her son Alexander ...
15 novembre 2024

«Perché fate tutto questo a noi che siamo persone pacifiche?». È la domanda che — nel racconto della figlia Sharon — Yocheved Lifshitz, ex ostaggio di Hamas, ha rivolto durante la sua detenzione a Gaza all’allora leader del movimento islamista, Yahya Sinwar, poi ucciso in un’operazione militare israeliana il 16 ottobre scorso. Alcuni dei sequestrati rapiti il 7 ottobre 2023, poi rilasciati in base a un accordo di tregua del novembre 2023 — l’unico dall’inizio del conflitto — hanno incontrato ieri sera presso la sede dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) la stampa. Yocheved, fotografa ottantaseienne, catturata nel kibbutz di Nir Oz (uno di quelli maggiormente presi di mira quel giorno) assieme al marito, e diventata nota perché alla liberazione ha stretto la mano al suo carceriere, a quella domanda non ha mai avuto risposta. E il coniuge, Oded, attivista per la pace come lei, è ancora nelle mani dei miliziani. Sinwar, lo ha incontrato un paio di volte anche Elena Troufanov, di cittadinanza israeliana e russa: «Ogni tanto passava nel tunnel accanto a dove stavamo noi», ha ammesso rispondendo a una domanda de «L’Osservatore Romano».

I ricordi di chi ha vissuto “strappato” dalle proprie case e famiglie per diversi mesi scorrono negli sguardi ancora segnati dalla sofferenza della prigionia, e nei pensieri sempre rivolti a coloro — dovrebbero essere 101 — ancora detenuti a Gaza dopo oltre 400 giorni. In apertura l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Yaron Sideman — che ha ringraziato il Pontefice dell’udienza privata concessa alla delegazione nel corso della mattinata di ieri e della vicinanza espressa — ha ribadito che «riportare a casa i sequestrati» è la priorità adesso.

Sharon, intervenuta per la mamma Yocheved, ha sottolineato come «la piccola comunità di Nir Oz» sia stata decimata, «abbiamo perso 57 membri mentre altri 29 rimangono ancora detenuti». Elena ha raccontato del suo rapimento e di come solo una volta liberata abbia appreso dell’uccisione del marito. Il figlio, Sasha, invece, di cui ha tenuto in mano, commossa, la foto per tutto il tempo della conferenza, rimane ancora nella Striscia: di lui i jihadisti hanno pubblicato un video il 13 novembre. Louis Har, israeliano e argentino, prelevato con tutta la famiglia dal kibbutz di Nir Yitzhak, ha espresso sconcerto «per il fatto che un’aggressione simile sia potuta avvenire all’interno del nostro Paese». «Ho trascorso 129 giorni all’inferno (l’unico a essere liberato, assieme al fratello della compagna, Fernando, in un’operazione militare dell’Idf a Rafah tra l’11 e il 12 febbraio 2024, n.d.r.), ma non posso dimenticare chi è ancora rapito». Gaya Calderon ha parlato al posto della sorella, Sahar, 17 anni, seduta in sala e rilasciata assieme al loro fratello Erez, di 12. «Nostro padre Ofer è ancora lì, in qualche cunicolo a Gaza. Mia sorella l’ha visto e l’ha trovato emaciato, dimagrito e disperato». Da tutti — alle loro spalle le foto dei parenti ancora in cattività con la scritta “Bring them home”, che ormai campeggia in ogni manifestazione pubblica per le strade e le piazze di Israele — nessuna parola di vendetta. Ma una richiesta, incalzante: che si arrivi presto a un accordo, «già prima dell’inverno», per il rilascio immediato di chi si trova ancora all’interno della Striscia. «È l’unica via per liberare tutti», ha aggiunto Gaya.

Nello spazio delle domande si è toccato il tema delle violenze sessuali, che però gli ex ostaggi hanno ammesso di non aver subito, anche se conoscono racconti di chi invece ne è stato oggetto; oltre che di antisemitismo. «Questo — ha detto Sharon — è l’incapacità di distinguere tra le persone, gli ebrei in quanto tali, e le eventuali decisioni politiche che possono non piacere. Io non condivido determinate azioni del nostro governo, vado in piazza per contestarlo assieme a mia madre, eppure perché devo essere considerata un’agente dell’esecutivo?». Il «nostro nemico è l’odio verso l’altro», ha detto ancora. Alla richiesta se nutrissero nuove speranze dopo la vittoria alle elezioni americane di Donald Trump, tutti hanno convenuto che «non è importante chi c’è alla Casa Bianca: l’importante è che ci si adoperi per fare finire la guerra e arrivare a un’intesa». Purtroppo, ha proseguito ancora Sharon Lifshitz, «c’è un “tango” che va avanti da molti anni tra Hamas e Netanyahu, e noi ne stiamo pagando le conseguenze». Ma oggi, ha concluso Har, che al Papa ha portato un regalo come segno di speranza per il prossimo Giubileo e per la pace, «niente è più importante di riportare a casa in vita i nostri cari».

di Roberto Paglialonga