Pochi porti in Africa e più in generale nel mondo possono vantare un peso geopolitico come quello di Gibuti. Infatti, la sua collocazione corrisponde a ciò che l’ammiraglio statunitense Alfred Mahan nel suo trattato di fine Ottocento intitolato “Influenza del potere marittimo sulla storia”, definì “choke-point” (in italiano potremmo dire “collo di bottiglia”). Si tratta di un passaggio marittimo obbligato per le rotte commerciali. D’altronde, chi controlla il mare, cioè le comunicazioni – spiegava Mahan — controlla le ricchezze del mondo, giacché esse si spostano prevalentemente su quella «grande pianura liquida».
Sta di fatto che il minuscolo Stato africano costiero, incastonato tra Etiopia, Eritrea e Somalia (o meglio dell’ex Somaliland britannico, dichiaratosi indipendente in seguito all’ormai pluridecennale crisi somala) e situato all’ingresso meridionale del Mar Rosso, sulla sponda occidentale dello stretto di Bab-el-Mandeb, fin dall’apertura del Canale di Suez è un nodo di attraversamento essenziale sulla rotta marittima tra Europa e Asia essendo collocato laddove avviene la congiunzione tra la Penisola Arabica e l’Africa orientale. Motivo per cui in questi anni è diventato sempre più l’avamposto di una task force internazionale.
La Francia, tra i grandi player di stanza a Gibuti, è quella che ha un rapporto storicamente rilevante con la sua ex colonia, tale dal 1884 al 1977, prima sotto il nome di Somaliland Francese, fino al 1967, e poi sotto quello di “Territorio Francese degli Afàr e degli Issa”. Tale nome fa riferimento alle due principali etnie del piccolo Paese. La prima, chiamata anche Dancali, era in origine una popolazione nomade del Corno d’Africa, collocata principalmente nella regione appunto di Afàr, nel deserto etiope della Dancalia, via via diventate stanziale anche in Eritrea, oltre che appunto a Gibuti. Gli Issa sono invece di origine somala.
L’indipendenza formale di Gibuti nel 1977 non ne modificò la collocazione internazionale, dato che sia il primo presidente del paese, Hassan Gouled Aptidon, in carica fino al 1999, sia il nipote e successore, Ismail Omar Guellé, ancora oggi presidente, sono rimasti in solidi e stretti rapporti di alleanza con la Francia, che mantenne un’importante base sul suo territorio, a Camp Lemonnier, precedentemente sede della guarnigione locale della Legione straniera francese. Questo rapporto con Parigi, se non esclusivo certamente privilegiato, incominciò a modificarsi nel 2002, quando i francesi si spostarono in altre basi nel paese e il governo locale decise di affittare quella di Camp Lemonnier agli Stati Uniti, dando inizio a una gara, tutt’ora in corso, tra grandi e piccole potenze per accaparrarsi un fazzoletto di terra nei 23.200 chilometri quadrati di Gibuti (un po’ di più della Toscana e un po’ di meno della Lombardia) uno Stato dunque abbastanza piccolo, ma come detto certamente di grande importanza strategica.
Al momento, oltre a Francia e Stati Uniti, hanno istallato basi militari a Gibuti prima il Giappone nel 2009, poi l’Italia nel 2014, poi ancora la Cina nel 2017, da ultima l’Arabia Saudita che vi ha proprie forze militari da un paio d’anni, mentre Germania, Spagna e Regno Unito vi hanno stanziato periodicamente dei presidi temporanei. E l’elenco potrebbe presto allungarsi, dato che India e Russia dichiarano da tempo di voler a loro volta essere presenti a Gibuti.
Questi Paesi hanno naturalmente firmato accordi bilaterali con il governo locale, compresi contratti di locazione annuali per le loro basi. Ma anche gli accordi devono misurarsi con il rilievo delle controparti. Significativo è stato il caso della nazionalizzazione nel 2018 del porto di Doraleh, costruito a suo tempo dagli Emirati Arabi Uniti, in cambio di massicci vantaggi di gestione. Non a caso, allo stesso periodo risale l’insediamento, sempre a Gibuti, della prima base navale cinese in Africa. Tutti gli interessati alla presenza militare nel choke-point africano adottano più o meno motivazioni analoghe, sulla spinta delle diverse crisi nello scacchiere: terrorismo, pirateria, conflitti in Iraq e Yemen, da ultime le situazioni a Gaza e in Libano con la riaccesa tensione tra Israele ed Iran già sfociata in azioni belliche.
La situazione, fatte le debite differenze storiche, di contesto, di estensione territoriale e di dimensioni della popolazione civile coinvolta, ricorda un po’ quella delle potenze straniere che tra fine Ottocento e primo Novecento si ritagliarono zone d’influenza in un’allora declinante Cina, gestendole in modo talmente irresponsabile da provocare una carestia spaventosa e innescando la rivolta cosiddetta dei Boxer. Certo, la piccola Gibuti del 2024 non è l’immensa Cina del 1899, ma la situazione coinvolge più o meno direttamente parti più rilevanti dell’Africa e non solo, dall’intero Corno d’Africa e in pratica tutto il vicino Oriente.
La presenza militare straniera ha innalzato la rilevanza di Gibuti, ma la presenza contemporanea di così tanti Paesi in uno spazio geopolitico siffatto piccolo rischia di trasformarsi in una pericolosissima lama a doppio taglio per il piccolo Paese dove ormai a determinare gli avvenimenti sono gli interessi, le ambizioni e le strategie che i principali player geopolitici del nostro tempo si ostinano a ritenere securitarie. E proprio questi interessi contrastanti possono rappresentare un fattore altamente destabilizzante per Gibuti, e appunto per la macroregione del Corno d’Africa e per lo stesso vicino Oriente.
In primo luogo, ospitare basi militari di diverse nazioni può rappresentare una minaccia per la capacità del Paese di prendere decisioni indipendenti. È vero che fino a oggi il governo di Gibuti è riuscito a muoversi con grande abilità tra i diversi interlocutori e persino che il presidente Guellé allo stato attuale ha assunto un rilievo notevole tra le parti in campo impegnate nella partita sul Corno d’Africa e sul Mar Rosso, ma è altrettanto vero che la posta potrebbe improvvisamente alzarsi al punto da lasciare spazio solo ai giocatori più danarosi. Né sono poche le prospettive che la partita potrebbe finire male, dati i numerosi elementi che vi concorrono: dalle crescenti tensioni tra l’Etiopia e i paesi rivieraschi di Eritrea e Somalia, dopo l’apertura di Addis Abeba al riconoscimento formale dell’indipendenza del Somaliland in cambio di un accesso al mare, alla guerra civile in Sudan, agli scontri etnici nelle regioni etiopi dell’Amara e del Tigray, alle minacce mai venute meno della pirateria e del terrorismo di matrice islamista.
Non c’è bene più globale della libertà di navigazione e non c’è al mondo rotta in cui la sicurezza marittima sia un bene di tutti più di quella del Mar Rosso: qui passano energia e grano, materie prime e manufatti. In nessun luogo come in questo sono necessarie soluzioni condivise, ma proprio qui si sta mettendo a nudo la grande frammentazione dell’ordine mondiale, con la competizione commerciale trasformata in militarizzazione. C’è sempre meno rotta e sempre più deriva che allontana l’unica vera soluzione per scongiurare il naufragio; navigare verso la pace.
di Giulio Albanese