· Città del Vaticano ·

A colloquio con la madre della giovane cristiana palestinese in stato di detenzione amministrativa in Israele

Layan senza colpa

 Layan senza colpa  QUO-256
12 novembre 2024

In sette mesi non è mai potuta andare a visitarla in carcere


La detenzione amministrativa è uno degli aspetti istituzionali più problematici e criticati della democrazia israeliana. Chi viene arrestato dalla polizia o dall’esercito non è intitolato a conoscerne le ragioni. Dopo otto giorni dall’arresto il caso viene portato all’attenzione di un giudice militare che in genere lo ratifica. La detenzione ha una durata di sei mesi ma può essere poi reiterata anche più volte. Si potrebbe rimanere in prigione per anni senza essere mai sottoposto a un processo. Del caso della giovane palestinese cristiana Layan Nasir «L’Osservatore Romano» si è già occupato nell’aprile scorso. Tra qualche giorno le autorità militari israeliane decideranno se prolungare o meno la detenzione di Layan.

«Mi chiamo Lulu Aranki Nasir e sono la mamma di Layan. Ho lavorato per anni nel business e ora sono pensionata. Ho tre figli: oltre a Layan, il suo gemello Basel e il fratello più grande Kamal. Partecipo attivamente al Consiglio direttivo della Diocesi episcopale di Gerusalemme e sono la tesoriera della nostra chiesa di San Pietro qui a Birzeit, e ho vari altri incarichi in associazioni culturali e sociali. Il mio obiettivo principale in tutti questi ruoli è comunque quello di incrementare per quanto possibile il benessere della società civile palestinese, in particolare della comunità cristiana, in tutte le sue denominazioni». «L’Osservatore Romano» ha raggiunto la mamma di Layan nella sua casa di Birzeit.

Signora Aranki, da quanto tempo sua figlia è detenuta nelle carceri israeliane?

Layan è in prigione dal 7 aprile, sette mesi ormai.

Perché le autorità israeliane considerano Layan un soggetto da tenere in detenzione preventiva?

Per Israele in realtà tutti i palestinesi sono soggetti pericolosi in quanto tali. In particolare quelli che credono nella libertà e nella giustizia, e non accettano ingiustizie, colonialismo, crimini di guerra e apartheid.

Layan fa parte di qualche partito politico o associazione?

Layan all’università di Birzeit era attiva nell’associazione degli studenti di sinistra, il che francamente è abbastanza normale nel nostro contesto per ogni studente che vuole vedere migliorate le condizioni di vita sue e della sua gente. Non mi sembra una colpa.

Durante questi sette mesi lei ha potuto visitare sua figlia in prigione?

No. Mai. Non abbiamo mai avuto il permesso. Perfino il nostro parroco, che voleva visitarla per portarle la comunione, si è visto rifiutare il permesso d’ingresso in prigione.

Cosa si sa circa le condizioni di vita nelle carceri israeliane?

Abbiamo parlato con alcuni detenuti dopo che sono stati rilasciati e riferiscono di scarsità di cibo e igiene, ma anche di torture. Tutti loro ci riferiscono di condizioni di vita durissime. Alcuni di essi, detenuti — ripeto — senza incriminazioni specifiche, ci hanno riferito di aver perso trenta chili di peso in sei mesi di detenzione. Sono francamente stupita per la mancanza di attenzione dei media mondiali su questa condizione di detenzione amministrativa senza colpe che riguarda ormai circa 10.000 cittadini palestinesi prigionieri nelle galere israeliane.

Signora Aranki, è in contatto con genitori o parenti di altri giovani palestinesi detenuti?

No, non c’è alcuna forma di coordinamento, eccetto che con la mia parrocchia. Ma sento molte storie che mi vengono riferite da parenti e avvocati dei detenuti. È una situazione veramente drammatica per le nostre famiglie, soprattutto quando sai — come nel caso di mia figlia — che sono detenuti senza che sia stata elevata contro di loro alcuna imputazione. Capite? Con questo sistema arbitrario ogni palestinese potrebbe essere detenuto da Israele per un tempo senza fine senza alcuna imputazione e senza un processo.

Che lei ne sia a conoscenza, vi sono altri cristiani nelle medesime condizioni di Layan?

I cristiani sono parte integrante del popolo palestinese e sono trattati come tutti gli altri, senza alcuna esenzione da parte degli occupanti israeliani. Credo ci siano altri cristiani nelle sue medesime condizioni, anche se Layan è l’unica donna cristiana proveniente dalla West Bank in prigione ora.

Ci vuole dire qualcosa su che tipo di ragazza è Layan, che interessi ha, che ambizioni nutre?

Mia figlia è il mio principale orgoglio. È una ragazza intelligente e una brillante studentessa. Si era appena laureata in veterinaria. È apprezzata e amata da chiunque la conosca. È una ragazza sana, che ama leggere e fare sport, e coltivare amicizie quando non lavora. È una ragazza molto socievole. Ha viaggiato abbastanza prima di essere arrestata, e come famiglia abbiamo sempre cercato di darle un senso di normalità del vivere, anche se questo è abbastanza impossibile sotto il regime di occupazione. Ironicamente e tristemente l’occupazione l’ha riguardata fin dai primi giorni di vita. Il giorno del suo battesimo i militari israeliani chiusero la strada che unisce Birzeit a Ramallah, impedendo al nostro prete anglicano di arrivare. Così lui chiamò il sacerdote cattolico latino chiedendogli di battezzarla comunque nella chiesa anglicana. Non penso che una cosa simile sia mai successa altrove, ma in Palestina accade, perché l’occupazione militare ci obbliga a interpretare con creatività la nostra fede.

Perché ha deciso di scrivere a Papa Francesco?

Perché conosciamo la sua sensibilità alla sofferenza di chi è vittima della guerra. Come ha già mostrato in altre occasioni. E crediamo nel suo mandato e nella dottrina sociale della Chiesa. All’inizio della sua detenzione è venuto a trovarci qui a casa l’incaricato d’affari della Delegazione apostolica di Gerusalemme; un diplomatico, ma anche un pastore, che ha avuto parole molto belle di conforto per noi. Poi non abbiamo più avuto contatti; per questo mi sono decisa a scrivere al Santo Padre: sono certa che anche le sue parole saranno un balsamo per le nostre pene. Perché il Papa sa che noi siamo “indigeni” dei luoghi dove Gesù è nato, come ci definì una volta san Giovanni Paolo ii ; i nostri lontani antenati forse erano quei pastori che si presero cura di Gesù bambino a Bethlehem. E questa è l’eredità che Layan e tutti noi cerchiamo di mantenere viva, lottando ogni giorno in Palestina.

di Roberto Cetera