Il dramma
Pochi romanzi hanno trattato il tema dell'elaborazione del lutto con la dolente finezza di Se un Dio pietoso (Donzelli 1996), testo d'esordio di Giovanni D’Alessandro di cui questo giornale ha già parlato e oggi vuole ritornare concentrandosi sul tema principale dell’opera: il mistero della paternità, naturale e artistica.
Il dramma di Berardo protagonista di questo romanzo storico è quello di un grande artista, scultore e architetto, che, ricercato in tutte le corti europee, nel culmine della gloria mondana perde il figlio Masino per il terremoto della sua città Sulmona: «La pietra — marmo granito porfido — era stata tutta la sua vita. Eppure dalla pietra era venuta la sua morte».
Sulla pietra Berardo, lasciando tutti gli altri lavori, si butta disperatamente cercando di ricavarne nuova vita e scolpisce un blocco che ha come tema la Pietà, un Cristo morto che, inevitabilmente, ha le sembianze identiche a quelle del giovane figlio morto. Ecco la scena come viene raccontata nelle prime pagine del romanzo.
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Guardò il volto di Masino, per domandargli non sapeva cosa. Si chinò sulla statua, tolse un granello di polvere dalla fronte, indugiò in quel gesto ripetendolo. Dormi in pace, lo carezzò, non metterti pensieri per questo, ci sono io qui adesso.
Ma non era un giorno qualunque, era il primo venerdì santo e la statua doveva uscire in processione.
Desiderò che non potesse farlo, che non fosse finita, cosicché l’avrebbe tenuta ancora un anno con sé. Perché non era finita infatti e lui lo sapeva, ma non era un ostacolo quello, da poter prospettare ai messi del vescovo tornati nei giorni precedenti: aveva detto loro stancamente di sì, pur di mandarli via, accettando che uscisse in processione. Cercò un altro segno d’imperfezione che gli fosse sfuggito, un’aggiunta impossibile che lo salvasse. Lo contraddisse ciò che vedeva. Tutto era più che perfetto, era meraviglioso.
Il figlio morto giaceva di fronte a lui, assopito in un sonno profondo, come un uomo dormiente dopo una gran lotta. Il corpo pareva assorbire la quiete del giaciglio. Le membra si allungavano forti, ma rilassate nel torpore. Un braccio portava al petto una mano dalle dita affusolate; l’altro, sorpreso dal sonno lungo il fianco, esprimeva un’innocenza in difesa; e la spalla da cui si partiva apprestava un rifugio infantile al volto, reclinato a nascondere il profilo perfetto, incorniciato dai ricci. Il volto era di una bellezza classica, che esprimeva virilità e armonia. Le palpebre parevano nascondere un sogno; ma venivano smentite da labbra severe, serranti un silenzio che solo la brutalità poteva aver imposto loro. Il corpo era adagiato su un talamo regale. Un’onda di drappeggio lo copriva sul ventre. Il capo poggiava su un cuscino, con rombi damascati e impunturati in rilievo, mentre i piedi terminavano contro una sponda, ripetente lo stesso disegno. Per l’armonia delle forme, il corpo si sarebbe detto di un antico atleta o di un Ares dormiente, ma la sua postura, così severa, non lasciava dubbi sulla profondità di quella quiete. Qui finiva la statua, non l’opera.
di Andrea Monda