Trenta anni fa usciva il fortunato trentaduesimo lungometraggio della Walt Disney diventato ben presto, come si suol dire, un classico. Anche perché il plot è quanto più di classico ci possa essere: una rivisitazione della trama dell’Amleto di Shakespeare. La Disney in questo è molto saggia: perché cercare nuove storie quando ci sono quelle vecchie e ben consolidate? L’usato sicuro spesso è più vincente dell'inedito e la formula migliore è fare qualcosa di nuovo sulle spalle del vecchio, soprattutto se è gigantesco come la celebre tragedia shakespeariana.
Quindi Amleto, e dunque il nucleo tematico della storia è quello della crisi di identità. Anticipiamo la risposta alla crisi che nel cartone animato della Disney viene offerta: l’amore inteso come relazione che permette e garantisce la fedeltà a se stessi e quindi il recupero della propria identità entrata in crisi nella prima parte della storia. Ma rivediamo un po’ la vicenda così come raccontata nel cuore della giungla africana anziché nella corte de re di Danimarca.
Simba, ovvero Amleto
Il film comincia con la nascita del leone Simba, figlio di Mufasa, re della foresta e della savana. È un evento solenne, sacro, a cui assistono entusiasti tutti gli abitanti del regno di Mufasa che esultano nel momento in cui Rafiki, l’anziano sacerdote-mandrillo, prende tra le braccia il piccolo neonato e lo mostra a tutti gli animali radunati per il grande evento. Simba quindi è il nuovo Re Leone di cui vediamo il rapido apprendistato da parte del severo e amoroso padre e così veniamo a scoprire che il piccolo cucciolo è chiamato a grandi cose, destinato a ereditare il regno del padre e a governarlo con saggezza e magnanimità lungo la linea tracciata dai suoi antenati. Ma questo progetto si avvererà attraverso una strada quanto mai lunga, dura, imprevedibile e faticosa. C’è qualcuno infatti che non ha gioito della sua nascita e anzi desidera la sua morte e comincia a tramare contro l’ignaro Simba: è suo zio, Scar, fratello (invidioso) di Mufasa. Proprio come nella tragedia di Shakespeare: il protagonista, il giovane principe Simba-Amleto, si trova orfano a causa dell’assassinio del re ucciso dal fratello Scar-Claudio. Inoltre l’astuto Scar ha fatto in modo che Simba si sentisse in colpa della morte del padre creando in lui una condizione di angoscia tale che lo spinge a scappare dalla Rupe dei Leoni, sede centrale del regno della savana, oltre il deserto.
Qui si svolge tutta la parte centrale, quella che nella versione Disney è diventata la più divertente e amata dai bambini (grazie anche all’intervento della buffa coppia Timon e Pumba, il suricato e il facocero che trovano Simba nel deserto), ma che in realtà si rivela molto ricca di significato.
Simba, proprio come Amleto, vive una profonda crisi di identità: l’angoscia per la morte del padre Mufasa lo ha prostrato al punto che egli si lascia “morire”, uccide il leone che è in lui. Decide di rimuovere il passato, quel macigno doloroso del ricordo della morte del padre e il segno inequivocabile dell’avvenuta rimozione, con conseguente eliminazione di ogni traccia della sua “felinità” è dato dal fatto che Simba, invece di saltare addosso e mangiare il facocero Pumba, ecco che “diventa” facocero egli stesso mettendosi a mangiare il cibo, insetti e altre “prelibatezze”, che divora l’ingordo Pumba. A coronamento di questa metamorfosi, abbiamo la lunga scena della canzone Akuna Matata (Senza pensieri) e mentre scorrono le allegre note del motivetto vediamo Simba cambiare, crescere nel fisico e diventare un leone adulto, ma solo fisicamente perché il leone, dentro, è morto, o profondamente addormentato (e proprio The lion sleep tonight, o se vogliamo Wimoweh, l'antico canto Zulù, è il motivo intonato da Timon).
Incontro, risveglio e vocazione
Da questo letargo, divertente quanto mortale, Simba verrà risvegliato, in modo improvviso e imprevedibile, dall’avvento di Nala ai confini della zona desertica dove lui va a zonzo giocherellando con i suoi due nuovi amici, un po’ come Pinocchio insieme al Gatto e la Volpe. Nala è la bella leonessa, da Simba amata in tenerissima età, e a lui destinata come moglie. È interessante notare che quando i due si incontrano Nala non lo riconosca, talmente è cambiato, non solo nel fisico: «Non sei il Simba che conoscevo» gli dice e Simba conferma: «No, non lo sono». Invece Nala è rimasta quello che era, una leonessa forte e fiera e basta un rapidissimo sguardo dei suoi bellissimi occhi che Simba la riconosca e che riceva un colpo, una staffilata dura e bruciante: il passato ritorna ad essere presente con tutto il suo peso terribile… per quanto si vuole scappare lontano, non si può fuggire da se stessi e dalla propria storia. L’incontro con l’altro, quando è autentico, permette di riconquistare la propria identità, mette in moto un meccanismo di conoscenza del sé più profondo. Quando lo riconosce Nala esclama: «Sei vivo, sei Re!» e questo nuovo “battesimo” è di fatto un richiamo, un appello a tornare nella sua terra per aiutare gli altri suoi simili. Ma Simba ancora non è pronto a diventare quello che è e risponde che qui, ai confini del deserto, sta finalmente «vivendo la sua vita»; non è disposto a tornare indietro (indietro nello spazio, verso la Rupe dei Re dove ormai Scar tiranneggia incontrastato, e, soprattutto, indietro nel tempo, verso un passato che «non si può cambiare»). È interessante sottolineare la cupa rassegnazione che vive Simba in quel momento: dietro l’apparente gaiezza con cui il giovane leone afferma di vivere «la sua vita» si avverte una strisciante disperazione. L’egoismo non porta alla gioia ma alla tristezza. Chi vuol vivere la propria vita la perderà, solo chi la dona con gioia agli altri, rispondendo alla chiamata che dagli altri proviene, potrà viverla pienamente e felicemente.
C’è allora bisogno di un altro incontro. Dopo essere stato scosso, risvegliato, dall’incontro con il suo vecchio amore, ecco un secondo incontro, decisivo, con l’anziano Rafiki, il mandrillo sacerdote del regno della savana. È molto interessante il breve dialogo che si svolge tra i due che, appena si incontrano, si interrogano: chi sei? Chi sei tu? Gli chiede il saggio Rafiki che ha facile gioco nel far emergere lo stato di confusione in cui si trova il povero Simba (un attimo prima lo abbiamo visto specchiarsi in una pozza d’acqua… «essere o non essere» potrebbero essere le sue parole). Simba non sa più chi è, ma per sua fortuna Rafiki, che lo ha visto nascere, lo sa bene (spesso la nostra verità risiede nell’altro, è l’altro che ce la rivela): «Tu sei il figlio di Mufasa». La nostra verità innanzitutto risiede nelle nostre radici. «Conoscevi mio padre? gli chiede Simba, sempre più scosso. «Errore, io conosco tuo padre» afferma solennemente Rafiki: per Simba il padre è morto, ma non così per Rafiki. «Mufasa non è morto, vieni che te lo mostro!», lo provoca il vecchio mandrillo al che Simba si mette a seguirlo convulsamente, col cuore in sussulto. Rafiki lo guida con foga in un percorso difficile, tortuoso, in un bosco buio, intricato, pauroso e periglioso, al termine del quale lo invita a fare silenzio e a guardare con attenzione in un limpido specchio d’acqua. Il simbolismo è forte e chiaro. Se Amleto è il grande mito moderno che, insieme a quello antico di Edipo, ha tanto detto e ispirato alla psicoanalisi, così anche il suo infantile epigono, Simba, nel suo piccolo, ci ricorda che superare una crisi d’identità non è mai semplice né indolore, che la strada da percorrere (dentro il proprio animo) è buia e insidiosa e che per arrivare a fare chiarezza attorno e dentro di sé l’uomo ha bisogno di silenzio, ascesi e capacità di nuovo sguardo. Con questi occhi nuovi (perché hanno attraversato il dolore e la paura) Simba riesce a vedere il padre: Mufasa gli appare nello specchio d’acqua e poi nelle stelle del cielo. È il momento più intenso ed emozionante del film. Simba capisce che nessuno muore mai, finché c’è qualcuno che lo ama. «Hai dimenticato chi sei» gli ricorda il padre «e quindi hai dimenticato anche me». Ma Mufasa non gli parla per rimproverarlo quanto invece per incoraggiarlo: «Sei molto di più di quello che sei diventato… devi prendere il tuo posto nel cerchio della vita… ricorda chi sei!». È il cuore del film: la vita osservata secondo la prospettiva delle relazioni e la dinamica incontro/risveglio/vocazione.
Diventare ciò che si è
È anche la dinamica dell’amore: Nala, Rafiki amano e quindi non dimenticano, vivono non nella rassegnazione e nel rimpianto del passato ma nel sempre vivo presente dell’amore riuscendo a rimanere fedeli a se stessi e alla propria vocazione. Questo vuol dire “realizzarsi”, diventare reali, far diventare reale, vero, quel progetto di vita che sentiamo vivere dentro il nostro cuore. Con la forza di questo amore Nala e Rafiki vanno incontro a Simba e lo risvegliano, chiamandolo. E ora Simba, chiamato perché amato, può rispondere e dire ad alta voce il suo nome e sente, ricorda, che è chiamato a grandi cose: è «molto più di quello che è diventato», può finalmente affrontare il suo passato e diventare quello che è (sempre stato).
Prendere con le proprie mani la propria vita e la propria storia non è facile e fa sempre male, come spiega a Simba Rafiki dando all’improvviso una sonora bastonata sulla sua bella testa leonina, ma il passato, se pur fa male, è anche utile, fecondo: nel momento in cui Rafiki prova a dare una seconda bastonata Simba ha appreso la lezione e schiva il colpo. «Ecco vedi?» dice Rafiki: «Dal passato puoi scappare oppure puoi imparare qualcosa». Simba capisce: basta fughe da se stesso, basta scappare, meglio è apprendere le lezioni, anche quando sono dolorose, che la vita porta con sé. L’importante è rimanere fedeli a se stessi, realizzare quel progetto che è già inscritto in noi al momento della nascita. «Il vento sta cambiando» osserva il giovane leone e si volge pure lui, col viso determinato e indurito, un po’ simile a Gesù che si incammina verso Gerusalemme (Luca 9,51), e comincia a correre. «Dove stai andando?» gli chiede Rafiki. «Sto tornando a casa!».
La fine del film è nota: Simba, come Ulisse, ritorna nella sua terra e farà giustizia ridiventando quello che era sempre stato, il Re Leone.
Simba e il suo, il nostro, destino
«Dove stai andando?». La domanda, semplicissima, di Rafiki è la domanda rivolta a Simba ma a tutti gli spettatori, di ogni età, di questo grande film diventato presto un magnifico musical teatrale. Soprattutto gli adolescenti sentono la staffilata racchiusa in questa domanda. Anche loro sono dei dei giovani leoni, irrequieti, confusi come Amleto; dei leoni in gabbia, fieri ma spesso già feriti, spesso, proprio come Simba, gravati da un carico di dolore, da un macigno di sofferenze che la vita gli ha già riservato. La favola del Re Leone parla di loro. E quella domanda è il dilemma fondamentale, l’interrogativo radicale: chi è l’uomo, cosa vuol dire essere, esistere, perché esiste qualcosa anziché il nulla, che senso ha tutto quello che esiste…
La risposta a questo dilemma sembra, alla luce del film, risiedere nella capacità di fedeltà a se stessi, il che vuol dire anche capacità di fedeltà alle relazioni, quelle “verticali”, con “il cielo”, cioè relative alle generazioni passate e future (Mufasa-Simba), e quelle “orizzontali”, le relazioni con i propri contemporanei (Simba-Nala, Simba e il resto della tribù dei leoni). Questa fedeltà alla propria identità (Simba è leone e re e non deve mai dimenticarsene) sfocia quindi nella responsabilità: siamo tutti responsabili, cioè “abili a rispondere”. La dignità umana si afferma nella nostra capacità di farci carico degli altri, di rispondere, cioè di ascoltare la chiamata che continuamente l’altro (e l’Altro) ci rivolgono. Simba ricorda il proprio nome, smette di dimenticare, di far finta di essere altro e quindi può sentire il grido di chi chiama quel nome. Siamo tutti Simba, siamo tutti re leoni, siamo tutti molto più di quello che rischiamo di diventare se usciamo dalla nostra strada più autentica, se cadiamo in quello che Pascal chiama divertissement: il “divertimento” nel senso di deviazione dalla retta strada, divagazione di chi non vuole prendere sul serio la propria vita e volge lo sguardo altrove, si stordisce pensando ad altro. È quello che fa Simba quando canta Akuna Matata con i suoi nuovi amici di strada. L’essere umano invece, ogni essere umano, è qualcosa di molto serio e molto bello, un tesoro unico e irripetibile che non va distorto, guastato.
Il nostro compito non è altro che quello di diventare quello che già siamo, e allora non saremo soltanto noi stessi, ma quel capolavoro unico e irripetibile che Dio già conosce e ama. L’opera d’arte ha la caratteristica della necessità: il quadro, il brano musicale, la statua, il romanzo… non possono non essere realizzati che in quell’unico modo, secondo un’assoluta, implacabile, necessità. Per questo noi apprezziamo il grande musicista quando “esegue” il brano, interpretandolo ma non capricciosamente quanto invece “obbedendo” alle note scritte sul pentagramma e invece non apprezziamo il bambino che pesta i tasti del pianoforte a casaccio, per “divertimento” (ma che per le nostre orecchie non è mai divertente). La nostra vita è così, è fatta di obbedienza, cioè di ascolto e di interpretazione-esecuzione o se vogliamo di “sequela”, allora, solo allora, la musica che scaturirà dalla nostra vita sarà armoniosa e dolcissima. Ma per farlo dobbiamo essere fedeli a noi stessi. Il che non vuol dire non conoscere crisi e difficoltà, al contrario vuol dire affrontarle e attraversarle appellandoci a tutte le nostre forze interiori, cercando di superarle con umiltà, serenità e coraggio, un coraggio da leoni.
di Andrea Monda