· Città del Vaticano ·

Raccontare la guerra
Vivere la guerra

Smoke rises following an Israeli airstrike that targeted the eastern Lebanese city of Baalbeck on ...
06 novembre 2024

Nella testimonianza  dei giornalisti sul campo le difficoltà di raccontare la guerra in Terra Santa. Che presenta delle unicità rispetto ad altre guerre.

«La cosa peggiore della guerra è che non conosce pause. Non sei tu che la segui, ma lei che segue te. Giorno e notte. Non ti abbandona quando pure hai finito il tuo articolo o il tuo collegamento video», dice Maria Gianniti, corrispondente da Gerusalemme della tv pubblica italiana. Raccontare la guerra è vivere la guerra. Non è solo cronaca ma anche il portato di una dimensione emozionale inevitabile, specie quando la guerra è quella che si combatte da più di un anno a Gaza, e ora non solo a Gaza.  La guerra più lunga delle tante che si sono combattute in settantasei anni di conflitto israelo-palestinese. E la più crudele.  Che ha consumato tante, troppe vittime innocenti. Una guerra che tanto è più lunga quanto più appare  lontana la sua conclusione. Come è stata raccontata finora  questa guerra? E come andrebbe raccontata? Esiste, al di fuori di Israele e Palestina, una comprensione reale di ciò che sta accadendo?  Ce lo siamo domandati tra giornalisti che in questi tredici mesi si sono incrociati nel lavoro e in spezzoni di vita.

Safwat Kahlout, 51 anni, di Gaza, è stato giornalista e senior producer di «al-Jazeera», la tv qatarina, per molti mesi unica fonte di informazioni e di immagini dalla Striscia.  Safwat, dalla primavera scorsa, è riuscito a lasciare Gaza, insieme alla moglie e agli otto figli, e ha trovato ricovero temporaneo in Italia: «Ho vissuto tante brutte esperienze dalla prima Intifada in poi, ma non avrei mai immaginato di vedere quello che ho visto nei sei mesi di guerra dopo il 7 ottobre, durante i quali ho continuato a lavorare per la televisione. Non era una guerra soltanto contro Hamas, ma contro tutti i palestinesi di Gaza. Ho lasciato la mia casa subito, il 13 ottobre, e con la mia famiglia abbiamo cambiato più volte residenza, cercando sempre un posto più riparato. Non so più nulla della mia casa. Io lavoravo tutto il giorno, ma sempre con grande preoccupazione per i miei figli. E loro erano sempre preoccupati  per me, per la mia inevitabile esposizione. Senza acqua, senza corrente, senza cibo. Ho ancora davanti agli occhi quell’immagine terrificante del ministro israeliano che in diretta televisiva si è mostrato abbassare la leva dell’erogazione dell’elettricità per tutta la Striscia. Ho sempre continuato a lavorare, e quando non potevo era perché ero occupato a cercare acqua e cibo per la mia famiglia. Fino a quando, in aprile, grazie a un mio precedente permesso di residenza e al grande aiuto di colleghi giornalisti italiani sono riuscito a uscire. Io sarei rimasto a Gaza, a lavorare, a informare, ma dovevo mettere in salvo i miei figli.

Come facevi a trasmettere in quelle condizioni?

Era un’impresa ogni giorno. Per attivare  telecamere e trasmettitori, ogni mattina mi mettevo in cerca di un po’ di gasolio per far funzionare i generatori; per un litro di gasolio pagavo 35 euro.  Oppure chiedevamo agli ospedali di poterci attaccare ai loro generatori. Fortunatamente avevamo una buona scorta di sim card straniere. In passato «al-Jazeera» aveva un grande palazzo a Gaza, che è stato completamente bombardato. In quei sei mesi abbiamo lavorato da dentro le tende.

Poi Safwat riflette sui giornalisti uccisi a Gaza e cerca di dare un volto a quel numero impressionante quanto astratto (pare siano 170 dal 7 ottobre 2023).

Tra loro ci sono situazioni diverse. Molti erano free lance con i quali non ci conoscevamo o avevamo contatti solo occasionali.  Ma c’erano anche quelli con cui abbiamo condiviso anni di lavoro, il mio cameraman, a esempio, con cui ho lavorato e vissuto insieme per quattordici anni.  Avevamo programmato di venire insieme in Europa, ma lui non ce l’ha fatta: l’hanno ucciso prima. E così è stato per la famiglia del mio caporedattore, con cui condividevo la tenda da cui trasmettevamo. Io non so se c’è stato un accanimento specifico verso i giornalisti, ma certo i morti sono stati tanti.  Lasciami dire una cosa: noi abbiamo rifornito di immagini e informazioni la stampa mondiale, anche prima del 7 ottobre, quando per i giornalisti era troppo difficile o pericoloso entrare a Gaza. Ci saremmo aspettati che la comunità mediatica internazionale alzasse la voce per richiedere una protezione maggiore per i giornalisti palestinesi.

Sul piano dei contenuti quali sono state le criticità maggiori? 

Intanto direi che per la prima volta ci siamo trovati non solo a dare notizie ma a essere noi stessi parte della notizia. E poi c’era l’impatto emozionale terribile che avevano le immagini che andavamo a raccogliere. Soprattutto i bambini sotto le macerie.  Non riesci più a dormire dopo una giornata passata a girare immagini tra le macerie di Gaza. Non mi sembra che i media internazionali abbiano reso un buon servizio. Sono stati in genere molto parziali, privilegiando la narrazione israeliana. Posso comprendere il deficit di neutralità, ognuno ha le sue idee, ma per molti mesi nessuna voce si è alzata a invocare il cessate il fuoco, il termine della strage di civili. C’è stata da parte dei media occidentali una totale dipendenza dal racconto di poche agenzie internazionali.  Per capire basterebbe fare un paragone su come diversa è stata la copertura del conflitto in Ucraina.

Severo è anche il giudizio sui media israeliani di Oren Persico, un veterano del giornalismo israeliano che dal 2006 monitora gli orientamenti mediatici del paese attraverso il sito watchdog  «The Seventh Eye». In una recente intervista alla rivista online «+972» edita a Tel Aviv, ha detto: «Il sistema è deprimente, irritante, pieno di propaganda, pieno di bugie.  D’altronde non è altro che uno specchio della società in cui viviamo. Non è soltanto colpa delle interferenze e pressioni di Netanyahu per avere media accondiscendenti. Bisogna infatti considerare due fattori: la maggior parte dei media sono privati, e il pubblico negli anni si è sempre più spostato a destra. Perciò non vogliono perdere spettatori e lettori, altrimenti non vendono pubblicità.  E poi occorre ricordare che i giornalisti sono comunque parte della società israeliana; molti di essi conoscono personalmente le vittime del 7 ottobre, gli ostaggi, e soldati che combattono a Gaza.  C’è un naturale, umano, responso emozionale, ma in questo modo mettono da parte la loro integrità professionale: non è una buona cosa, è un errore».

A monte di tutto «c’è un problema principale — dice Nello Scavo, inviato del quotidiano “Avvenire” — che è stato quello di impedire alla stampa di entrare a Gaza, e potersi documentare direttamente su quanto stava succedendo.  In tal senso la guerra di Gaza rappresenta un’unicità rispetto ad altri conflitti.  Io penso che se ci avessero permesso di entrare a Gaza questo sarebbe potuto risultare conveniente anche a Israele. Per esempio avremmo potuto documentare anche gli abusi che Hamas perpetra sulla popolazione civile della Striscia, o anche la costrizione dei civili impiegati come “scudi umani”, o il turpe mercato nero degli aiuti umanitari che venivano sequestrati dalle bande delle diverse fazioni palestinesi.  Il fatto che Israele non abbia voluto cogliere questa opportunità conveniente non ha fatto altro che alimentare tante domande su cosa stesse veramente accadendo dentro Gaza. Le sole informazioni di cui ci siamo approvvigionati sono state quelle trasmesseci dai giornalisti palestinesi interni alla Striscia, alcuni dei quali ci hanno lasciato la pelle. Alla fine rimane la percezione che ci sia un tentativo, anche subdolo, di limitare il lavoro dei giornalisti».

Perché dici subdolo?

Perché, anche quando scrivi cose indiscutibilmente vere e incontestabili, ti viene poi rimproverato un eccesso di enfasi che caratterizzerebbe un atteggiamento antisemita. Questa accusa ricorrente verso chiunque eleva critiche è francamente insopportabile. È uno screditamento che non fa bene neanche a chi lo lancia. E ciò ha contribuito ad accrescere una già presente polarizzazione nociva e a rendere più difficile il nostro lavoro. Penso per esempio alla vicenda delle bombe al fosforo bianco lanciate in Libano, di cui abbiamo entrambi scritto. Non è questione che riguarda solo Israele. Mi è capitato il paradosso che un medesimo mio pezzo sia stato ferocemente contestato in Italia sia dagli ambienti pro Netanyahu, sia da quelli pro Palestina.  Queste contese fanno passare in secondo piano l’emergenza umanitaria del conflitto. E spostano il focus sul tema della “colpa”. Che è un tema che può rilevare se scrivi un commento, un’analisi politica, ma che è del tutto relativo quando devi scrivere la cronaca vera di una tragedia. Giornalismo di pace è quello che pone domande, e molte domande in questo conflitto sono rimaste inevase.

Manuela Dviri è una giornalista e scrittrice  israeliana di origine italiana. Vive in Israele da oltre mezzo secolo, ha scritto per il «Corriere della Sera», per «Haaretz» e per il «Fatto Quotidiano».  I media «del nostro paese mostrano un’Israele chiusa in se stessa e nei suoi problemi. Del resto del mondo qui non si sa nulla. Soprattutto non si sa nulla di come all’estero  la pensino rispetto a quanto accade qui.  Il problema è che non siamo usciti dal trauma del 7 ottobre. Continuiamo a viverlo. Mentre il mondo è andato oltre. Gran parte  delle narrazioni israeliane partono dal 7 ottobre, ignorando un prima e un dopo. È come se l’intera popolazione di Israele si senta anch’essa ostaggio.  C’è una grande lacuna, che è la mancanza del riconoscimento della sofferenza altrui. Da entrambe le parti, a dire il vero.

E i media internazionali?

Beh, lasciamelo dire: leggo tanta incompetenza. E anche tanta partigianeria. È una vicenda  terribilmente complessa che dura da settantasei anni, e che non può essere letta e spiegata da un desk lontano migliaia di chilometri, o con l’approccio da tifoseria da stadio.  Ne esce fuori una narrazione che sembra la sceneggiatura di un reality show. Anche gli inviati che vengono qui per fare la cronaca della guerra e poi tornano a casa non riescono ad assimilare le sottili questioni anche culturali e antropologiche che sono alla base del conflitto.

I tuoi articoli invece parlano molto dal di dentro. Ne sei soddisfatta?

Io cerco solo di non allontanarmi dalle cose vere e dalle cose giuste. E cerco di raccontare anche la sofferenza degli altri, cosa che purtroppo a molti riesce impossibile. Di una cosa non mi sento soddisfatta e mi rimprovero: anche io come tanti prima del 7 ottobre mi ero addormentata. Voglio dire mi ero adagiata su quella narrazione indotta da Netanyahu che sottaceva la permanenza di un problema palestinese. Il 7 ottobre nella sua drammaticità è stata una sveglia.  I miei articoli, da questo punto di vista,  non sono neutrali: penso che, nel rispetto della verità raccontata, dobbiamo aiutare chi vuole risolverlo questo problema. Con il riconoscimento di uno Stato per i palestinesi.

Francesca Caferri, inviata speciale del quotidiano «La Repubblica», centra la sua riflessione sulle parole:  «Per la prima volta nella mia esperienza professionale mi sono trovata a dover pesare attentamente ogni singola parola.  Ci sono parole in questa vicenda, come terrorismo o terrorista, genocidio, autodifesa o vendetta, che suscitano diverse percezioni e reazioni a seconda di chi le legge. O parole che banalizzano l’orrore della guerra, come neutralized  o casualties. In Israele, in Palestina, come pure in Italia, le reazioni e le contestazioni su una singola parola usata divengono un caso politico.  E questo ti costringe, anche inconsciamente,  ad anestetizzare i pezzi, impedendoti di esprimere in trasparenza la realtà».

«Ha ragione Nello Scavo», riprende Maria Gianniti che da quattro anni è corrispondente Rai da Gerusalemme: «Il problema principale è l’impossibilità di entrare a Gaza. L’Idf adduce due ragioni: l’impossibilità di garantire la sicurezza dei reporter e la possibilità che risultino di ostacolo alle loro operazioni militari. Ma rimane il fatto che raccontare una guerra senza poterla vedere è un’impresa ardua, che ti espone anche alle parzialità. Io ho avuto la possibilità di entrare embedded con Idf a Gaza  due settimane dopo il 7 ottobre per un paio d’ore. La prima, e forse unica, tra i cronisti italiani. Ma non ho potuto vedere e registrare molto. Solo l’inizio di una distruzione totale che si sarebbe consumata nei mesi successivi. Abbiamo solo racconti e immagini per interposta persona, che però bastano a configurare l’intervento israeliano oltre i caratteri dell’autodifesa, e piuttosto della vendetta. La barbarie del 7 ottobre ha generato un abisso  che nella mia vita professionale avevo potuto vedere solo in Siria».

Che lettura c’è degli eventi sui media israeliani?

La tv israeliana, sia i canali privati sia la rete pubblica «Kan 11», non mostrano Gaza.  Questo rafforza nell’opinione pubblica un sentimento di esclusiva centralità della propria sofferenza. Sulla carta stampata è diverso: la stampa israeliana mostra di essere libera e forte. Su «Haaretz» o «Times of Israel», per esempio, leggi critiche a Netanyahu e al suo governo, assai più severe di quelle che puoi trovare sulla stampa occidentale, e italiana. Noi scontiamo poi una difficoltà che direi storica, e che può essere riassunta nella frase tra noi ricorrente: «In Medio Oriente nulla è come ciò che appare».  C’è un intreccio di relazioni trasversali, interne agli schieramenti, assai poco trasparenti, che è difficile da rappresentare. Ed è difficile spiegarle e indicare una scala di priorità delle notizie ai colleghi dei rispettivi desk.

Tu qui lavori ma anche vivi da alcuni anni ormai.

Da quando è iniziata la guerra non riesco più a vivere il paese. Ti devi sdoppiare fintanto sei qui. Non è una vita vera. Le app che ti segnalano in tempo reale dove stanno cadendo i razzi di Hamas o Hezbollah,  il rumore cupo la notte dei cacciabombardieri israeliani che sorvolano Gerusalemme verso il nord, e tutte quelle immagini orripilanti che ti passano sullo schermo durante il giorno: quando la sera hai finito crolli. C’è un impatto emozionale sul nostro lavoro che neanche la professionalità più fredda e cinica può cancellare. C’è una cosa che mi pesa molto: non riesco più a vedere la bellezza intorno a me, non riesco più a vedere la bellezza straordinaria e unica di Gerusalemme.

di Roberto Cetera