In cammino
«Con Dio non siamo mai arrivati, a Dio non siamo mai arrivati: siamo sempre in cammino, sempre rimaniamo alla sua ricerca. Ma proprio questo camminare» verso di Lui «offre l’inebriante certezza che Egli ci aspetta per donarci la sua consolazione e la sua grazia»: lo scrive Papa Francesco nell’introduzione al libro «La fede è un viaggio. Meditazioni per viandanti e pellegrini» (Lev 2024, pp. 72, 8 euro), antologia di brani scelti del Pontefice pensata in vista del Giubileo. Di seguito, il testo integrale dell’introduzione.
Quando ero prete a Buenos Aires, e questa abitudine l’ho mantenuta anche da vescovo nella mia città d’origine, amavo camminare a piedi nei vari quartieri per andare a trovare dei confratelli sacerdoti, visitare una comunità religiosa o parlare con gli amici. Camminare fa bene: ci mette in relazione con quanto accade intorno a noi, ci fa scoprire suoni, odori, rumori della realtà che ci circonda, in poche parole, ci avvicina alla vita degli altri.
Camminare significa non stare fermi: credere vuol dire aver dentro un’inquietudine che ci porta verso un “più”, verso un passo in più in avanti, verso un’altezza da raggiungere oggi, sapendo che domani la strada ci porterà più in alto — o più in profondità, nel nostro rapporto con Dio, che è esattamente come il rapporto con l’amato o amata della nostra vita, o tra amici: mai finito, mai scontato, mai appagato, sempre in ricerca, non ancora soddisfacente. Impossibile dire con Dio: «Fatto, tutto a posto, è abbastanza».
Per questo motivo il Giubileo del 2025, insieme alla dimensione essenziale della speranza, ci deve spingere ad una sempre maggior consapevolezza del fatto che la fede è un pellegrinare e che noi su questa terra siamo pellegrini. Non turisti né girovaghi: non ci spostiamo a caso, esistenzialmente parlando. Siamo pellegrini. Il pellegrino vive il suo camminare all’insegna di tre parole-chiave: il rischio, la fatica, la meta.
Il rischio. Oggi facciamo fatica a capire cosa significasse per i cristiani di un tempo compiere un pellegrinaggio, abituati come siamo alla velocità e comodità dei nostri spostamenti in aereo o in treno. Ma mettersi per strada mille anni fa significava assumersi il rischio di non tornare più a casa a causa dei tanti pericoli che si potevano incontrare sulle varie rotte. La fede di chi sceglieva di mettersi in cammino era più forte di ogni timore: i pellegrini di un tempo ci insegnano questa fiducia verso il Dio che li chiamava a porsi in cammino verso la tomba degli Apostoli, la Terra Santa o un santuario. Anche noi chiediamo al Signore di avere una piccola porzione di quella fede, di accettare il rischio di abbandonarci alla sua volontà, sapendo che è quella di un Padre buono che ai suoi figli desidera assegnare solo quanto è opportuno per loro.
La fatica. Camminare significa effettivamente fare fatica. Lo sanno bene i tanti pellegrini che oggi sono tornati ad affollare le antiche vie di pellegrinaggio: penso al cammino verso Santiago de Compostela, alla via Francigena, ai vari Cammini sorti in Italia che richiamano ad alcuni santi o testimoni tra i più noti (san Francesco, san Tommaso, ma anche don Tonino Bello) grazie ad una positiva sinergia tra istituzioni pubbliche e enti religiosi.
Camminare comporta la fatica di alzarsi presto, prepararsi uno zaino con l’essenziale, mangiare qualcosa di frugale. E poi i piedi che dolgono, la sete che si fa pungente, soprattutto nelle assolate giornate d’estate. Ma questa fatica è premiata dai tanti doni che il camminatore incontra per strada: la bellezza del Creato, la dolcezza dell’arte, l’ospitalità della gente. Chi compie un pellegrinaggio a piedi — tanti lo possono testimoniare — riceve molto di più della fatica compiuta: instaura bellissimi legami con persone incontrate nel suo itinerario, vive momenti di autentico silenzio e di feconda interiorità che spesso la vita frenetica del nostro tempo rende impossibile, capisce il valore dell’essenziale rispetto al luccichio dell’avere tutto il superfluo, ma di mancare il necessario.
La meta. Camminare come pellegrini significa che abbiamo un approdo, che il nostro spostarci ha una direzione, un traguardo. Camminare significa avere una meta, non essere alla mercé del caso: chi cammina ha una direzione, non gira a vuoto, sa dove andare, non perde tempo zigzagando da una parte all’altra. Per questo ho più volte richiamato quanto siano affini l’atto del camminare e l’essere credenti: quanti hanno Dio nel cuore hanno ricevuto il dono di una stella polare verso cui tendere — l’amore che abbiamo ricevuto da Dio è motivo dell’amore che dobbiamo offrire alle altre persone.
Dio è la nostra meta: ma non lo possiamo raggiungere come raggiungiamo un santuario o una basilica. E in effetti, lo sa bene chi ha compiuto pellegrinaggi a piedi, arrivare finalmente alla meta sospirata — penso alla cattedrale di Chartres, da tempo oggetto di una rinascita a livello di pellegrinaggi grazie all’iniziativa, risalente a un secolo fa, del poeta Charles Péguy — non significa sentirsi appagati: o meglio, se esteriormente si sa bene di essere arrivati, interiormente si è consci che il cammino non è finito. Perché Dio è proprio così: un traguardo che ci spinge oltre, una meta che ci chiama in continuazione a proseguire, perché è sempre più grande dell’idea che noi abbiamo di lui. Dio stesso ce l’ha spiegato attraverso il profeta Isaia: «Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Is 55, 9). Con Dio non siamo mai arrivati, a Dio non siamo mai arrivati: siamo sempre in cammino, sempre rimaniamo alla sua ricerca. Ma proprio questo camminare verso Dio ci offre l’inebriante certezza che Egli ci aspetta per donarci la sua consolazione e la sua grazia.