Nell’autobiografia «Sorpreso dalla gioia» lo scrittore Clive Staples Lewis parla brevemente della guerra, la prima guerra mondiale, che lo vide impegnato come fante inglese sul fronte francese. E ricorda in modo vivido un dettaglio: «L’impressione del primo proiettile che sentii fischiare: così lontano da me che “sibilò” come il proiettile di un giornalista o di un poeta del tempo di pace. In quel momento non provai nulla che somigliasse neppure da vicino alla paura, e tantomeno all’indifferenza. Un piccolo segnale tremolante che diceva: “Ecco la Guerra. Ecco la cosa di cui scriveva Omero”». Rileggiamo questa pagina che sottolinea quella dimensione di “estraneazione”, quasi di “rimozione” che colpisce tutti rispetto alla guerra, anche coloro che ne hanno fatto l’esperienza.
«Per tutto l’inverno i nostri principali nemici furono la pioggia e la stanchezza. Andavo a dormire marciando e mi svegliavo per ritrovarmi ancora in marcia. Nonostante gli alti stivali di gomma, l’acqua nelle trincee ci arrivava sopra il ginocchio; ricordo ancora la gelida fiumana che si rovesciava fuori degli stivali quando ci capitava di forarli contro il filo spinato. La familiarità con i morti di data antica o recente riconfermò in me l’idea che mi ero formata dei cadaveri al momento della morte di mia madre. Imparai a conoscere, a compatire e a rispettare l’uomo comune: e in particolare il caro sergente Ayres, che venne (credo) ucciso dalla stessa granata che ferì me […]. Ma, per il resto, la guerra — con la paura, il freddo, l’odore degli esplosivi, gli uomini orribilmente maciullati che ancora si muovevano come scarafaggi mezzo schiacciati, i cadaveri seduti o in piedi, il paesaggio di terra brulla senza un filo d’erba, gli stivali indossati notte e giorno fino a che non sembravano essersi incollati ai piedi — altro non è che un raro e pallido ricordo. È troppo estraneo al resto delle mie esperienze e spesso ho la sensazione che sia accaduto a un altro».