Le Chiese dei paesi del Nord Africa, se si sono salvate, devono ringraziare i flussi migratori. Se non fosse stato per migliaia di uomini e donne, giovani e anziani, che nel tempo hanno viaggiato fin lì nel tentativo di trovare una via di fuga per una vita migliore, sarebbero diventate solo un ricordo sbiadito. Il cardinale Cristóbal López Romero parla addirittura di rinascita quando pensa al frutto generato dall’impatto che i migranti hanno provocato, nei decenni, sulla vita ecclesiale di quelle nazioni, subito dopo che i cristiani europei erano stati costretti a lasciarle alla fine del protettorato e all’albore dell’indipendenza. Il prelato è arcivescovo dell’arcidiocesi marocchina di Rabat e presidente della Conferenza episcopale regionale del Nord Africa — che raggruppa i vescovi di Marocco, Algeria, Tunisia, Libia e Sahara occidentale — e usa un solo concetto per far capire come i flussi migratori siano stati una manna dal Cielo: «Dopo la partenza dei cristiani europei, le chiese delle nostre nazioni si erano svuotate. Con l’arrivo dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana si sono riempite di nuovo. Con una caratteristica: sono diventate chiese molto giovani, l’età media dei nostri cristiani oggi è di 35 anni». È durante una pausa dei lavori del Sinodo sulla sinodalità in corso in Vaticano che il cardinale trova il tempo di approfondire con «L’Osservatore Romano» una questione che gli sta molto a cuore, in questi tempi dove l’odio etnico e la costruzione di muri tra Stati si stanno diffondendo a macchia d’olio: rendere consapevole il mondo che le migrazioni sono una risorsa, non un problema. E le Chiese del Nord Africa sono lì a testimoniarlo: «Da trent’anni a questa parte, le nostre comunità sono cambiate in modo spettacolare. Sono diventate più gioiose, più entusiaste. Abbiamo recuperato il catecumenato degli adulti, abbiamo riaperto delle comunità nelle città dalle quali erano scomparse». C’è una definizione che a lui piace e che utilizza per delineare la profonda identità ecclesiale costituitasi nel tempo in tutto il Nord Africa: «Siamo una Chiesa di stranieri, di migranti». E per rendere bene l’idea degli ordini di grandezza, cita la sua arcidiocesi di Rabat «composta dall’ 80% di giovani studenti provenienti da tutti i Paesi africani. Questo ci impone di essere una Chiesa samaritana che tenta di accogliere e proteggere». Il Marocco, come in fondo diverse altre nazioni di tutta l’area, non è solo un terminale d’approdo per i migranti ma anche un punto provvisorio nel quale sostare per poi tentare di raggiungere il sogno di tutta una vita: l’Europa. Una dimensione, anche questa, che incide sulla vita delle comunità cristiane locali. «Ci coinvolge a tal punto — dice López Romero — che non possiamo esimerci dall’esercitare la carità con aiuti concreti. Come dicevano i saggi: se le ricchezze non vanno dove sono i poveri, i poveri andranno dove si trovano le ricchezze». La vicinanza delle Chiese del Nord Africa alle sofferenze e ai sogni di riscatto dei migranti produce ottimi risultati anche sul fronte dell’evangelizzazione. Ad esempio, agli studenti immigrati nelle città marocchine le comunità cristiane si impegnano a donare corsi di formazione spirituale. I frutti sono avvincenti, rivela il cardinale: «Ogni anno, battezziamo 40 adulti mentre i giovani che ricevono il sacramento della confermazione sono un centinaio. Tra questi c’è anche chi è di passaggio e vuole raggiungere presto altre nazioni più ricche». La presenza della Chiesa nelle terre nordafricane, insomma, si caratterizza per essere una piccola luce che ricorda al mondo come i migranti vadano amati e sostenuti: «Noi testimoniamo che Dio ama ognuno di noi, che la fratellanza umana è possibile, che tra musulmani e cristiani si possono stabilire delle relazioni di amicizia e buon vicinato» sostiene il cardinale. Ciò che lo turba, però, è vedere che in Europa, ogni volta di più, si stia consolidando l’opposizione tra islam e cristianesimo mentre «la via per la pace passa attraverso la condivisione». Queste piccole comunità ecclesiali di minoranza rappresentano anche un altro segno di speranza per le Chiese europee — afflitte da stanchezza e crisi di numeri e vocazioni — che l’arcivescovo di Rabat definisce «della vecchia cristianità»: «Dimostriamo che vale la pena vivere la nostra fede anche se si è in pochi. Il problema non sono i numeri, il grande problema è essere il sale che ha perso il sapore del Vangelo».
di Federico Piana