La testimonianza

La vicenda degli undici martiri di Damasco va letta con due categorie: quella della testimonianza come affermazione soggettiva e oggettiva della fede, e quella della dimostrazione assoluta di amore per Cristo, come suggeriva san Paolo vi per la canonizzazione di san Nicola Tavelic e compagni il 21 giugno 1970.
La loro vicenda non è connotata dalla ricerca di un eroismo umano che altro non è se non una forma di narcisismo sublimato per cui l’eroe crede di poter sopravvivere alla morte grazie alla fama che gli verrà dalle gesta compiute.
Non c’è niente di tutto questo nella spiritualità del martirio ma semplicemente il desiderio di testimoniare la propria fede e di manifestare il proprio amore nei confronti di Gesù Cristo, come forma di risposta esistenziale a ciò che Egli ha fatto per noi, manifestando nel dare la sua vita per noi quello che l’evangelista Giovanni chiama «l’amore più grande» (Gv 15, 13).
La spiritualità del martirio è, del resto, ciò che caratterizza l’orizzonte della vocazione missionaria e, direi, della vocazione alla vita consacrata in quanto tale.
Non è un caso che san Francesco nel capitolo xvi della Regola non bollata, che è quello dedicato alla missione, inizi presentando il rischio insito nella vita missionaria «Dice il Signore: “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe” (Mt 10, 16)» (cfr. Rnb xvi, 1-2: ff 42); e concluda ricordando che la disponibilità al martirio è già implicita nell’aver fatto la professione religiosa: «E tutti i frati, dovunque sono, si ricordino che hanno donato se stessi e hanno abbandonato i loro corpi al Signore nostro Gesù Cristo. E per il suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili, poiché dice il Signore: “Colui che perderà la sua vita per me, la salverà per la vita eterna” (Cfr. Lc 9, 24; Mt 25, 46)» (cfr. Rnb xvi , 10-11: ff 45).
Questi undici uomini, otto dei quali frati minori e tre fedeli laici della Chiesa maronita, furono uccisi a Damasco, da un gruppo di drusi appositamente sobillati, nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1860. Questi testimoni della fede in Cristo Gesù e dell’amore per Lui sono stati beatificati da Papa Pio xi il 10 ottobre 1926. La loro storia ha un valore esemplare e paradigmatico anche per noi oggi.
Ricordiamo brevemente i loro nomi e la loro provenienza. Sette sono spagnoli: Manuel Ruiz López, Carmelo Bolta Bañuls, Nicanor Ascanio de Soria, Pedro Soler Méndez, Nicolás María Alberca Torres, Francisco Pinazo Peñalver e Juan Jacobo Fernández y Fernández. Uno, Engelbert Kolland, proviene dal Tirolo (Austria). Tre sono fedeli maroniti originari di Damasco: Francesco, Mooti e Raffaele Massabki.
A quasi cento anni dalla beatificazione, attraverso la memoria di questi martiri, risalta ancora una volta la vocazione al martirio della Chiesa di Siria, dove tutti i cristiani si sono ritrovati e si ritrovano uniti nel testimoniare la propria fedeltà e il proprio amore a Cristo e al suo Vangelo.
Questo gruppo di martiri, formato da tre maroniti, sette frati minori spagnoli e uno tirolese, dimostra come il Vangelo sia un lievito che unisce le diversità di cultura, nazionalità e rito.
Quest’unità evangelica è il fondamento dell’impegno passato, presente e futuro della Custodia di Terra Santa, nel rispetto di quella internazionalità voluta da Papa Clemente vi nel 1342.
Nella stagione di prova che vivono oggi i cristiani in Siria e in Libano, tra guerre, crisi economica e catastrofi naturali, la tanto desiderata canonizzazione dei martiri, religiosi e laici, uniti nella testimonianza di Cristo fino all’effusione del sangue, potrà essere di grande conforto e sostegno ai cristiani rimasti, per continuare a testimoniare il valore della loro appartenenza a Cristo e alla Chiesa.
I martiri saranno altresì un luminoso esempio per i religiosi e per il clero locale, ivi compresi i frati della Custodia di Terra Santa, a spendersi totalmente per amore di Dio, fino anche al martirio.
Per noi frati di Terra Santa, la testimonianza dei martiri di Damasco costituisce un esempio di fortezza cristiana e di coraggio missionario.
Il loro esempio, in questi secoli nei quali non è mai stato facile incarnare in questa parte del mondo i principi pacifici della missione francescana, ha motivato migliaia di frati provenienti da tutto il mondo a dare a loro volta la vita: nell’essere una presenza fraterna, orante e accogliente dentro i santuari; nel servizio pastorale della piccola comunità cristiana locale e in quello educativo aperto a tutti senza distinzione di religione; nel tener viva la memoria e l’identità cristiana dei luoghi santi che raccontano il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio e della nostra redenzione e nel conseguente studio della Scrittura e dell’archeologia biblica; nell’accogliere i pellegrini desiderosi di rinnovare la loro fede a contatto con i Luoghi Santi; nel servire i poveri, i migranti, i rifugiati e gli ammalati di qualsiasi religione consapevoli del rischio che comporta.
Possa la testimonianza di questa fraternità di martiri stimolare soprattutto le giovani generazioni a non aver paura di rispondere alla chiamata alla vita consacrata e alla missione.
Ciò che ci viene promesso il giorno della nostra prima professione, da parte di Dio onnipotente, se saremo fedeli alla nostra vocazione, è il dono della vita eterna.
di Francesco Patton
Custode di Terra Santa