· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Il dibattito sul ruolo del continente nei consessi internazionali come l’Onu e il G20

L’Africa rivendica
la propria dignità

NEW YORK, NEW YORK - OCTOBER 16: Members of the United Nations Security Council attend a meeting on ...
18 ottobre 2024

La 79ª Assemblea generale delle Nazioni Unite, conclusasi recentemente a New York, ha offerto la possibilità all’Africa di far sentire la propria voce in una fase congiunturale segnata dai crescenti rischi di una guerra globale. A questo proposito è stato molto chiaro e diretto l’intervento del presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, che ha rilanciato la centralità delle Nazioni Unite, fondata sui principi sanciti nella sua Carta: «I diritti umani fondamentali, la dignità e il valore di ogni persona e l’uguaglianza dei diritti delle nazioni grandi e piccole». La stampa internazionale ha dato molto rilievo alla dura presa di posizione di Ramaphosa sulla questione palestinese. Egli ha infatti invocato «uno sforzo collettivo attraverso il sistema delle Nazioni Unite e altre istituzioni multinazionali per porre fine alle sofferenze dei civili palestinesi e affinché prevalga l’azione legale intrapresa dal Sud Africa contro Israele attraverso la Corte Penale Internazionale».

Ma l’intervento del presidente sudafricano è andato ben al di là di quella che è stata la narrazione giornalistica main stream. Egli, infatti, ha anche richiesto una urgente riforma delle Nazioni Unite chiedendo senza mezzi termini che diventi: «Più inclusivo in modo che le voci di tutte le nazioni possano essere ascoltate e prese in considerazione». Basti pensare a quella che è l’attuale composizione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che dalla sua fondazione, 78 anni fa, non è mai cambiato, escludendo l’Africa dalle principali strutture decisionali. Da questo punto di vista, ha precisato Ramaphosa: «l’Africa è pronta a svolgere il suo ruolo nella costruzione di un ordine globale più sicuro partecipando ai lavori del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla base del rispetto e dell’accettazione», auspicando «una maggiore cooperazione tra l’Onu e l’Unione Africana per risolvere le cause profonde delle guerre nel continente».

Per inciso è bene ricordare che sta crescendo il consenso a livello mondiale sul fatto che il Consiglio di sicurezza dell’Onu, responsabile del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, necessiti di una riforma o di una ristrutturazione per migliorare la sua operatività. Gli Stati Uniti hanno annunciato il 13 settembre scorso, che avrebbero sostenuto la creazione di due nuovi seggi permanenti per i paesi africani e un seggio non permanente per le piccole nazioni insulari in via di sviluppo. Ciò è avvenuto a seguito dell’impegno assunto nel 2022 dall’amministrazione Biden di sostenere l’espansione del Consiglio di Sicurezza. I nuovi seggi permanenti, comunque, non prevederebbero il diritto di veto e dunque non si tratterebbe di un pieno riconoscimento come auspicato dalle cancellerie africane, quella sudafricana in testa.

Ramaphosa ha anche affermato che il suo paese «sostiene l’appello del Segretario generale dell’Onu anche per quanto concerne la riforma dell’architettura finanziaria globale per consentire ai paesi di sollevarsi dalle sabbie mobili del debito». Com’è noto, il Sud Africa nel 2025 assumerà la presidenza del G20 e non v’è dubbio che il governo di Pretoria farà di tutto per portare avanti queste istanze. La posta in gioco è alta in considerazione dell’attuale congiuntura internazionale, ma anche perché il continente africano sta subendo per induzione forti condizionamenti, a partire dalla crisi russo-ucraina e quella mediorientale. Se poi si aggiungono le tendenze economiche e politiche globali, unitamente a quelle proprie del continente, che quasi mai sono consone alle istanze poste dalla società civile africana, il quadro si fa ancora più critico.

La preoccupazione maggiore riguarda l’Africa subsahariana che, assieme al resto del cosiddetto Global South (il Sud Globale), sembra essere sotto scacco nelle proprie scelte da un quadro internazionale sempre più diversificato e competitivo che genera per i paesi interessati problemi a non finire. Basti pensare al fatto che i tassi d’interesse imposti ai paesi svantaggiati sono molto più alti di quelli applicati alle nazioni industrializzate del Primo mondo. I paesi africani, ad esempio, prendono in prestito a tassi fino a otto volte superiori di quelli della Germania e quattro volte superiori di quelli degli Stati Uniti. Come ha ben evidenziato nel suo intervento a New York il presidente brasiliano Lula da Silva, presidente in carica del G20, è fondamentale «l’eliminazione del carattere fortemente regressivo dell’architettura finanziaria internazionale».

Emblematica è la questione del debito pubblico che ha un impatto fortemente negativo su qualsiasi investimento in infrastrutture, in benessere e sostenibilità. Sempre Lula ha fatto notare che nel 2022, la differenza tra gli importi pagati dal mondo in via di sviluppo (dunque, Africa inclusa) ai creditori esteri e quelli ricevuti è stata di 49 miliardi di dollari. Per dirla con le stesse parole del presidente brasiliano si tratta di “un piano Marshall al contrario, in cui i più poveri finanziano i più benestanti”, un qualcosa, francamente, di inaccettabile.

Aiutare l’Africa significa dunque sostanzialmente applicare delle riforme. Ad esempio, secondo i dati raccolti da Bloomberg, delle 10 valute con le peggiori performance a livello mondiale nel trimestre luglio/agosto/settembre 2024, cinque erano africane, tra cui il kwacha zambiano, il kwanza angolano e la naira nigeriana. Le ragioni della debole performance sono in gran parte dovute alla mancanza di liquidità in dollari, alle pressioni inflazionistiche e ai prezzi volatili delle materie prime. Sta di fatto che la povertà in Africa avanza.

Lo scorso anno, circa 733 milioni di persone hanno sofferto la fame, ovvero una persona su undici in tutto il mondo e una persona su cinque nella sola Africa: a rivelarlo è l’ultimo rapporto sullo Stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo (Sofi) pubblicato il 24 luglio dalla Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) e da altre quattro agenzie che fanno capo all’Onu. Questa situazione stride drammaticamente con i profitti guadagnati negli ultimi due anni dalle 150 più grandi aziende del mondo: 1.800 miliardi di dollari. Tutto questo mentre gli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite sono in ritardo rispetto alla tabella di marcia prefissata per il loro raggiungimento entro il 2030.

Sia chiaro: i problemi dell’Africa hanno anche cause endogene, non foss’altro perché vi sono comunque paesi le cui autorità e classi dirigenti in questi anni hanno tratto grandi rendite dallo sfruttamento delle materie prime, mentre, paradossalmente, la maggior parte delle popolazioni locali hanno continuato a vivere nell’indigenza più totale. A riprova che il divario dei salari tra le classi dirigenti e la società civile è tale per cui sarebbe pretestuoso negare la corruzione presente in alcuni apparati statali. Ciò non toglie che questo continente invoca un riconoscimento che le è dovuto. L’ingresso dell’Unione Africana (Ua) come membro permanente nel Gruppo dei G20, avvenuto lo scorso anno, è stato comunque un segnale positivo che non va sottovalutato.

di Giulio Albanese