· Città del Vaticano ·

Il magistero

 Il magistero  QUO-236
17 ottobre 2024

Domenica 13

Il bisogno
di felicità
e di una vita
colma
di significato

Il Vangelo (Mc 10, 17-30) parla di un uomo ricco che corre incontro a Gesù e gli chiede: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù lo invita a lasciare tutto e a seguirlo, ma quello, rattristato, se ne va poiché «possedeva infatti molti beni». Costa lasciare tutto.

Possiamo vedere i due movimenti di quest’uomo: all’inizio corre, per andare da Gesù; alla fine, però, se ne va rattristato. Anzitutto, questo tale va da Gesù correndo. È come se qualcosa nel suo cuore lo spingesse.

Pur avendo tante ricchezze, è insoddisfatto, porta dentro un’inquietudine, è alla ricerca di una vita più piena. Come fanno spesso ammalati e indemoniati, egli si butta ai piedi del Maestro; è ricco, eppure ha bisogno di guarigione.

Gesù lo guarda con amore; poi, gli propone una “terapia”: vendere tutto quello che ha, darlo ai poveri e seguirlo.

Ma, a questo punto, arriva una conclusione inattesa: quest’uomo si fa triste in volto e va via! Tanto grande e impetuoso è stato il desiderio di incontrare Gesù, quanto freddo e veloce il congedo.

Anche noi, portiamo nel cuore un insopprimibile bisogno di felicità e di una vita colma di significato. Tuttavia, possiamo cadere nell’illusione di pensare che la risposta si trovi nel possesso delle cose materiali e nelle sicurezze terrene.

Gesù invece vuole riportarci alla verità dei nostri desideri e farci scoprire che, in realtà, il bene a cui aneliamo è Dio stesso, il suo amore per noi e la vita eterna che Lui solo può donarci.

La vera ricchezza è essere guardati con amore dal Signore, e come fa Gesù con quell’uomo, amarci tra noi facendo della nostra vita un dono per gli altri.

La vera
ricchezza
è amare
ed essere amati

Gesù ci invita a rischiare, a “rischiare l’amore”. Vendere tutto per darlo ai poveri, che significa spogliarci di noi stessi e delle nostre false sicurezze, facendoci attenti a chi è nel bisogno e condividendo i nostri beni, non solo le cose ma ciò che siamo: i nostri talenti, la nostra amicizia, il nostro tempo.

Quell’uomo ricco non ha voluto rischiare l’amore e se n’è andato col volto triste. E noi? Chiediamoci: a che cosa è attaccato il nostro cuore? Come saziamo la nostra fame di vita e di felicità? Sappiamo condividere con chi è povero, in difficoltà o ha bisogno di ascolto, di un sorriso, di una parola che aiuti a ritrovare speranza?

La vera ricchezza non sono i beni di questo mondo, è essere amati da Dio e imparare ad amare come Lui.

(Angelus in piazza San Pietro)

Mercoledì 16

Per un riscatto
culturale
dalla piaga
della mafia

La vostra Facoltà, nata con una forte vocazione ecclesiologica, è chiamata da dentro la storia e in ascolto del fiuto della fede che il popolo di Dio possiede, a farsi protagonista per affrontare quelle sfide che il Mediterraneo pone alla teologia: il dialogo ecumenico con l’Oriente; il dialogo interreligioso con l’Islam e l’Ebraismo; la difesa della dignità umana del Mare nostrum, spesso reso monstrum dalle logiche di morte; la forza culturale e sociale della religiosità popolare — la “pietà popolare”, come ha detto san Paolo vi —; la risorsa della letteratura per il riscatto della dignità culturale del popolo; e, soprattutto, le sfide di liberazione che giungono dal grido delle vittime della mafia.

Si tratta di imparare l’artigianato della teologia come una tessitura di reti evangeliche di salvezza, proprio lungo le rive siciliane del Mediterraneo.

È un paziente lavoro che prova a narrare l’amore del Maestro, capace di suscitare lo stupore dell’incontro e dell’amicizia. Lo stupore è il nervo che suscita la fede.

Immaginate quel momento in cui il Maestro si è fermato lungo il mare di Galilea a contemplare quei pescatori che riassettavano le reti: cosa lo ha spinto a chiamarli intorno a sé, cingersi della loro umanità, inviarli come pescatori di uomini?

Perché le reti, nella mente di Gesù, nel suo modo di pensare, diventano segno e strumento di salvezza?

Intessere reti
di salvezza
con fili
di grazia
e misericordia

Ecco il compito della teologia dal Mediterraneo: intessere reti di salvezza, reti evangeliche fedeli al modo di pensare e di amare di Gesù, costruite con i fili della grazia e intrecciate con la misericordia di Dio, con le quali la Chiesa può continuare ad essere, anche nel Mediterraneo, segno e strumento di salvezza del genere umano.

Questo è il modo con cui la teologia può amare, può diventare carità. Si tratta di una vera e propria analogia crucis: «Dall’alto della croce il teologo è provocato a guardare la realtà umana con gli occhi di colui che si è abbassato a tal punto da divenire il più piccolo tra gli uomini, rinunciando alle sue prerogative divine e assumendo la condizione del servitore».

Mi piace pensare pertanto a un salto della prossimità, che completi il salto della fede, così da non essere un balconero della storia, ma un tessitore di reti che sa annodare attorno a sé l’umanità del Cristo e del suo Vangelo.

Le reti si tessono e si riassettano seduti per terra, spesso stando in ginocchio. Questa è la posizione migliore per amare il Signore: in ginocchio.

Significa assumere lo stile della lavanda dei piedi e quello del buon samaritano che si china dinanzi alle ferite del malcapitato nelle mani dei briganti.

Le mani dei teologi possiamo immaginarle così: che narrano l’abbraccio di Dio, che offrono tenerezza, che rialzano chi è caduto e orientano alla speranza.

La teologia richiede e include la testimonianza fino al sacrificio della vita.

I martiri
per la legalità
“vere cattedre”
di giustizia

Questa terra conosce grandi testimoni e martiri, da Padre Pino Puglisi al giudice Rosario Livatino, senza dimenticare i magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Essi sono “vere cattedre” di giustizia, che invitano la teologia a contribuire, con le parole del Vangelo, al riscatto culturale di un territorio ancora drammaticamente segnato dalla piaga della mafia.

Fare teologia nel Mediterraneo vuol dire ricordare che l’annuncio del Vangelo passa attraverso l’impegno per la promozione della giustizia, il superamento delle disuguaglianze e la difesa delle vittime innocenti, perché risplenda sempre il Vangelo della vita e il male venga respinto in tutte le sue forme.

Una teologia
del perdono
e del dialogo

C’è bisogno di una teologia con-promessa, che si immerge nella storia e in essa fa risplendere la carità di Cristo.

Vorrei che la Facoltà avviasse processi di ricerca teologica e sociale sul perdono, al crocevia della legalità, della resistenza e della santità. Iniziate con creatività un laboratorio teologico e sociale del perdono, per una vera rivoluzione di giustizia!

Questa è la vocazione della vostra Isola. Essa, però, è anche luogo dove si incontrano in armonia culture, storie, e volti diversi, che impegnano la teologia a coltivare il dialogo con le Chiese sorelle d’Oriente che si affacciano anch’esse sul Mediterraneo.

La rotta del dialogo ecumenico e interreligioso, per quanto difficoltosa, è quella da riproporre attraverso esperienze di incontro, anche di confronto e collaborazione nel comune ascolto dello Spirito.

È eredità di tanti martiri del dialogo nel Mediterraneo. A voi è perciò affidata la missione di costituirvi come laboratorio di una teologia del dialogo ecumenico e di una teologia delle religioni che sfoci in una teologia del dialogo interreligioso.

In questo contesto appare fecondo, il confronto tra la teologia e la letteratura, nota che ha caratterizzato in questi anni anche la ricerca della vostra Facoltà Teologica, soprattutto per la scelta di riconoscere quel fiuto della fede che appartiene all’esperienza del popolo.

Come potrebbe capirsi il poliedrico pensiero siciliano senza la letteratura, senza Pirandello, Verga, Sciascia, e senza le tematiche esistenziali su cui essi hanno scritto pagine memorabili?

Coltivare
una teologia viva
e con-promessa
con la storia

Il Mediterraneo ha bisogno di una teologia viva, che coltivi fino in fondo la sua dimensione contestuale, diventando un appello per tutti. Coltivate questa teologia con-promessa con la storia, così come Dio nella carne del Figlio si è compromesso con le nostre lacrime e le nostre speranze.

Promuovete una teologia che, dall’alto della croce e in ginocchio davanti al prossimo, usi parole umili, sobrie e radicali, per aiutare tutti ad affacciarsi alla compassione; parole che insegnino a fare reti di salvezza e di amore, per generare una storia nuova, radicata nella storia del popolo.

(Videomessaggio alla Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia)

Artigiani
della salute

Chi parla di futuro, parla di speranza, di progetto, di impegno. E in questo senso la vostra opera è preziosa per l’uomo, che è una creatura bella e fragile, una creatura desiderosa di vita e di futuro e al tempo stesso tanto vulnerabile.

Per questo è importante che il vostro stile sia sempre umano e professionale, di chi si prende cura dei sofferenti, perché anzitutto se li prenda a cuore, coniugando in ogni vostro intervento competenza e deontologia, secondo la cultura della salute, che sia servizio alla persona nella sua integrità. Pensate al futuro del chirurgo a partire da una cultura della dedizione al fratello, soprattutto se povero ed emarginato. È sempre l’uomo che vive e che muore, che patisce e guarisce, non solo i suoi organi o tessuti.

La scienza
è per l’uomo
non viceversa

All’opposto c’è il rischio, anche per i medici, di smarrire la propria vocazione, collocandosi fuori da quell’alleanza terapeutica, che pone al centro chi è malato o ferito. La medicina moderna, infatti, a volte tende a concentrarsi molto sulla dimensione fisica dell’uomo, piuttosto che considerarlo nella sua totalità e unicità. Così, però, il corpo diventa un nudo oggetto d’indagine scientifica e di manipolazione tecnica, a scapito del paziente, che va in secondo piano. Invece la scienza è per l’uomo, non l’uomo per la scienza! Una scienza umana.

Oggi, in un tempo in cui la chirurgia si avvale di molte nuove tecnologie, tra cui l’intelligenza artificiale, è bene non dimenticare mai che nulla può prescindere dalla “mano” del chirurgo.

Quando dunque avete tra le mani il corpo dell’uomo, creato a immagine di Dio, agite come “artigiani della salute”, operando gli altri con la stessa cura con cui vorreste essere trattati voi.

Riflettete sui gesti che, da professionisti, mettere in pratica, insieme, in squadra coi vostri cooperatori, e non abbiate paura di promuovere, specialmente tra i giovani, una formazione umana, scientifica, tecnologica e psicologica: verranno da qui le migliori caratteristiche dei futuri chirurghi.

Custodire
la vita
di chi soffre

Il vostro lavoro e la vostra missione saranno sempre importantissimi: vi invito perciò a essere custodi della vita di chi soffre — custodi della vita di chi soffre. Anche quando una persona non può guarire, può però sempre essere curata, perché nessuno sia mai considerato o si senta uno scarto.

E a questo riguardo, stimati chirurghi, vorrei concludere consegnandovi un’icona che può ispirare il futuro della vostra professione: l’icona di Gesù medico delle anime e dei corpi — ossia di tutto l’uomo — narrata nella parabola del buon Samaritano (cfr. Lc 10, 30-37). In essa, colui che si prende cura vede e si ferma senza fretta: ha compassione di chi incontra, gli si fa vicino e ne fascia le ferite. Vede, ha compassione, si fa vicino e ne fascia le ferite. Sono questi gli atteggiamenti che io vi raccomando: vedere con amore, provare compassione, farsi vicino e prendersi cura. È così che ogni buon medico diventa il prossimo del paziente.

(Alla Società italiana di chirurgia)

Le differenze
tra cristiani
siano
riconciliate

Con la catechesi di oggi passiamo da ciò che sullo Spirito Santo ci è stato rivelato nella Sacra Scrittura a come Egli è presente e operante nella vita della Chiesa, nella nostra vita cristiana.

Nei primi tre secoli, la Chiesa non ha sentito il bisogno di dare una formulazione esplicita della sua fede nello Spirito Santo.

Ma fu l’eresia a spingere la Chiesa a precisare questa sua fede. Quando questo processo iniziò — con Sant’Atanasio nel quarto secolo — fu proprio l’esperienza che essa faceva dell’azione santificatrice e divinizzatrice dello Spirito Santo a condurre la Chiesa alla certezza della piena divinità dello Spirito Santo. Questo avvenne nel Concilio Ecumenico di Costantinopoli, del 381, che definì la divinità dello Spirito Santo con le note parole che ancora oggi ripetiamo nel Credo.

Dire che lo Spirito Santo “è Signore” era come dire che Egli condivide la “Signoria” di Dio, che appartiene al mondo del Creatore, non a quello delle creature. L’affermazione più forte è che a Lui si deve la stessa gloria e adorazione che al Padre e al Figlio.

La definizione conciliare non era un punto di arrivo, ma di partenza.

Cosa dice a noi, credenti di oggi, l’articolo di fede che proclamiamo ogni domenica nella Messa: «Credo nello Spirito Santo»? Di esso, in passato, ci si è occupati principalmente a proposito dell’affermazione che lo Spirito Santo “procede dal Padre”. La Chiesa latina ben presto integrò questa affermazione aggiungendo, nel Credo della Messa, che lo Spirito Santo procede “anche dal Figlio”. Siccome in latino l’espressione “e dal Figlio” si dice “Filioque”, ne è nata la disputa conosciuta con questo nome, che è stata la ragione (o il pretesto) per tante dispute e divisioni tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente.

Non è certo il caso di trattare qui tale questione che, del resto, nel clima di dialogo instauratosi tra le due Chiese, ha perso l’asprezza di un tempo e oggi permette di sperare in una piena accettazione reciproca, come una delle principali “differenze riconciliate”. A me piace dire questo: “differenze riconciliate”. Fra i cristiani ci sono tante differenze: questo è di questa scuola, dell’altra; questo è protestante, quello… L’importante è che queste differenze siano riconciliate, nell’amore di camminare insieme.

La vita
che viene
dallo Spirito
è eterna

Superato questo scoglio, oggi possiamo valorizzare la prerogativa per noi più importante che viene proclamata nell’articolo del Credo, e cioè che lo Spirito Santo è “vivificante”, cioè dà la vita. Ci domandiamo: che vita dà lo Spirito Santo? All’inizio, nella creazione, il soffio di Dio dà ad Adamo la vita naturale; da statua di fango, lo rende “un essere vivente”.

Ora, nella nuova creazione, lo Spirito Santo è Colui che dà ai credenti la vita nuova, la vita di Cristo, vita soprannaturale, da figli di Dio.

Dove sta, in tutto questo, la grande e consolante notizia per noi? È che la vita che ci è data dallo Spirito Santo è vita eterna! La fede ci libera dall’orrore di dover ammettere che tutto finisce qui, che non c’è alcun riscatto per la sofferenza e l’ingiustizia che regnano sovrane sulla terra. Lo Spirito abita in noi, è dentro di noi.

(Udienza generale in piazza San Pietro)

Quello al cibo
è un diritto
minato

La 44a Giornata Mondiale dell’Alimentazione ci invita a riflettere sul diritto al cibo per una vita e un futuro migliori. Questo è qualcosa di prioritario, in quanto soddisfa uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano, ovvero quello di nutrirsi per vivere secondo adeguati standard qualitativi e quantitativi che garantiscano un’esistenza dignitosa della persona umana.

Tuttavia, vediamo spesso come questo diritto sia minato e non applicato in modo equo, con tutte le dannose conseguenze che ne derivano.

Nell’interesse di promuovere il diritto al cibo, la FAO propone di considerare in modo adeguato una trasformazione dei sistemi alimentari che tengano conto della pluralità e della varietà di alimenti nutrienti, accessibili, sani e sostenibili come mezzo per raggiungere la sicurezza alimentare e una dieta sana per tutti.

Per questo è importante non dimenticare la dimensione intrinseca, sociale e culturale, dell’atto di alimentarsi. A questo proposito, i responsabili politici ed economici a livello internazionale devono ascoltare le richieste di coloro che si trovano alla base della catena alimentare, come i piccoli agricoltori e i gruppi sociali intermedi, come le famiglie, che sono direttamente coinvolti nell’alimentazione delle persone.

Le soluzioni energiche necessarie per affrontare e risolvere il problema alimentare del nostro tempo richiedono che consideriamo i principi di sussidiarietà e solidarietà come fondamento dei nostri programmi e progetti di sviluppo, affinché non si rimanga in ascolto delle esigenze di quanti vengono dal basso, dei lavoratori e degli agricoltori, dei poveri e degli affamati e di quanti vivono in condizioni di disagio nelle aree rurali isolate.

L’umanità, ferita da tante ingiustizie, reclama con urgenza misure efficaci per condurre una vita migliore, agendo insieme, animati dallo stesso spirito di fraternità e sapendo che questo pianeta che Dio ci ha donato deve essere un giardino aperto alla serena convivenza.

La giustizia
guidi
il nostro agire

A questo pensavo quando ho proposto di considerare il paradigma dell’ecologia integrale, affinché si tenessero in conto le necessità di ciascun uomo e di tutti gli uomini, affinché si protegga la sua dignità nelle sue relazioni con gli altri e in stretta connessione con la cura del creato. Soltanto se prendiamo l’ideale della giustizia come guida del nostro agire si riusciranno a soddisfare i bisogni delle persone.

Questo richiede anche che ci lasciamo interpellare e commuovere dalla condizione dell’altro e che la solidarietà si trasformi nel principio delle nostre decisioni. In questo modo, la protezione delle generazioni future andrà di pari passo con l’ascolto e l’azione a favore delle richieste delle generazioni attuali, attraverso un’alleanza intergenerazionale che chiami tutti alla fraternità e dia un senso nuovo e più autentico alla cooperazione internazionale, una cooperazione che deve animare questa Organizzazione e l’intero sistema multilaterale.

In questo cammino, pieno di ostacoli e di difficoltà, ma allo stesso tempo entusiasmante e ricco di sfide, la Comunità internazionale potrà contare sull’incoraggiamento della Santa Sede e della Chiesa cattolica, che non cessano mai di dare il loro tenace contributo affinché tutti abbiano cibo in quantità e qualità adeguate per se stessi e per le proprie famiglie, affinché ogni persona possa condurre una vita dignitosa e affinché il doloroso flagello della miseria e la fame nel mondo siano definitivamente sconfitti.

(Messaggio al direttore generale della Fao
nella Giornata mondiale dell’alimentazione)