· Città del Vaticano ·

Il Sinodo dei vescovi
Il forum presso la Curia dei gesuiti

«Cosa siamo disposti
a cedere perché la Chiesa
sia una?»

 «Cosa siamo disposti a cedere  perché la Chiesa sia una?»  QUO-236
17 ottobre 2024

Approfondire alcuni aspetti del rapporto fra l’autorità del Vescovo di Roma, «perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli» (Lumen gentium 23), e il Sinodo dei vescovi, organismo fondato nel 1965 da Paolo vi . L’occasione è stata il forum teologico-pastorale organizzato nell’ambito dei lavori dell’Assemblea sinodale, che si è tenuto ieri sera, 16 ottobre, presso la Curia generalizia dei gesuiti, a Roma.

Il tema del ministero petrino, nella dinamica circolare di sinodalità-collegialità-primato, è stato affrontato dal teologo don Dario Vitali, docente di Ecclesiologia alla Pontificia Università Gregoriana e consultore del Sinodo. Sulla base del presupposto ermeneutico in virtù del quale «ogni modello di Chiesa corrisponde un modello di ministero, e ogni modello di ministero rivela un correlativo modello di Chiesa» il teologo ha illustrato l’evoluzione storica di questa relazione distinguendo il cammino della Chiesa in tre fasi, in tre millenni: un primo in cui si può parlare di sinodalità senza primato; un secondo, nella Chiesa latina, di primato senza sinodalità; un terzo «si spera, di sinodalità e primato».

In una Chiesa pensata come communio Ecclesiarum, dove il massimo dell’unità a livello istituzionale era l’articolazione del corpo ecclesiale in patriarcati, le Chiese nel primo millennio riconoscevano un primato non tanto del Vescovo di Roma, ma della Chiesa di Roma. In ragione della sua antichità, della sua gloria (qui erano morti Pietro e Paolo), della sua fedeltà alla dottrina apostolica, la Sedes Romana era riconosciuta, ha spiegato Vitali, come ultima istanza nella risoluzione dei conflitti. L’istanza sinodale per eccellenza fu il Concilio ecumenico, rappresentazione visiva della Ecclesia tota, in quanto ogni vescovo ripresentava la sua Chiesa, e insieme ripresentavano la Catholica. «Era l'imperatore, non il Papa, a convocare i concili — ha ricordato — ed era l’effettivo principio di unità della Chiesa, in quanto capo del popolo cristiano». Don Vitali ha proseguito il suo exursus evidenziando come il papato reagì contro l’esito estremo del cesaropapismo in Occidente, modificando profondamente il modello di Chiesa, rivendicando infatti un ruolo di guida universale, in ragione del mandato di Cristo a Pietro: si passò dalla sedes al sedens, dalla Chiesa di Roma al Romano Pontefice. Il Vescovo di Roma aveva una potestà di giurisdizione su tutte le Chiese e la Chiesa cessò di essere la communio Ecclesiarum. «Lo sbilanciamento portò la teologia apologetica a sviluppare quella che Congar chiamò papolatria — ha sottolineato ancora il sacerdote — con un modello di Chiesa piramidale visibile, gerarchica, monarchica che era lo specchio perfetto della figura e funzione del Pontefice».

Con il Concilio Vaticano ii si pone la questione della collegialità: si ribadisce, ha osservato don Vitali, da un lato la dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano Pontefice e del suo infallibile magistero, e si afferma, dall’altro, l’intenzione di dichiarare pubblicamente e di esplicitare la dottrina sui vescovi. «Il modello resta tuttavia di Chiesa universale, tanto che — ha affermato il professore — il mancato esercizio della collegialità nel post-concilio è la prova provata che un modello universale di Chiesa non sopporta due soggetti di “piena e suprema autorità su tutta la Chiesa”. Lo dimostra il fatto che dopo il Concilio si sia imposta una visione debole della collegialità, quella di collegialità affettiva, che nei fatti si è tradotta in una forma rinforzata di esercizio del primato». Eppure, Lumen gentium «costituisce un taglio netto e definitivo alla concezione del ministero petrino fondato sul primato di giurisdizione» ha insistito don Vitali («nelle e a partire dalle Chiese particolari esiste l’una e unica Chiesa Cattolica», Lg 23). Il punto è che, se si considera il vescovo non vicario del Papa ma di Cristo stesso nella sua Chiesa, «questa è irriducibile a una circoscrizione territoriale della Chiesa, ma è una Chiesa particolare — ha scandito Vitali — vale a dire una “portio Populi Dei nella quale è presente e agisce la Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica”».

Secondo il docente, «il processo sinodale in atto sta consegnando alla Chiesa un esercizio del primato nuovo, originale» che corrisponde al modello di Chiesa come comunione di Chiese. È il Vescovo di Roma, in quanto principio di unità della Chiesa che chiama tutte le Chiese all'azione sinodale. E «non si tratta — è stato precisato — di una mera funzione notarile», significa piuttosto che «egli non è la prima, l’ultima, l’unica istanza; semmai la prima, quando avvia i processi; l’ultima quando li conclude». In questo rapporto circolare di unità e diversità, il Papa si pone sul versante dell’unità: Vescovo della Chiesa particolare di Roma, con tutte le sue peculiarità, egli è al servizio dell’unità della Chiesa, come garante della comunione delle Chiese. «Questa lettura — ha concluso Vitali — più che una novità, è la fedele recezione del principio di cattolicità formulato dal concilio».

La canadese Catherine Clifford, docente di Teologia sistematica e storica presso la Saint Paul University di Ottawa e delegata sinodale per il Nord America, ha ripreso il punto dell’Instrumentum laboris (n 41) dove si sottolinea che la comunione dei fedeli è allo stesso tempo la comunione delle Chiese. «La Chiesa è nel vescovo e il vescovo è nella Chiesa» ha detto, mettendo in rilievo una contraddizione basata sul fatto che oggi quasi la metà dei vescovi cattolici (emeriti, ausiliari, nunzi, vescovi di curia…) non sono pastori di nessuna Chiesa. Servire Chiese non esistenti, osserva, non è coerente con il loro ruolo nel corpo sinodale, per cui è importante «ristabilire il legame tra il vescovo e una Chiesa locale esistente». Ha inoltre citato il Documento di Chieti della Commissione teologica mista ortodossa-cattolica che pone il primato sotto la luce dell’insegnamento di Cristo: chi vuol essere primo, sarà l’ultimo dei servi. E ha concluso spiegando che recenti sviluppi della pratica sinodale in diversi contesti riflettono la tendenza a non enfatizzare il primato del Vescovo di Roma quanto a spostare l’attenzione invece sulla dimensione della collegialità.

Da Valladolid, José San José Prisco, dei sacerdoti operai diocesani, decano di Diritto canonico alla Pontificia Universita di Salamanca, si sofferma su come sviluppare una sana decentralizzazione nella Chiesa, collegata al principio della sussidiarietà.

Il salesiano Timothy Costelloe, arcivescovo di Perth e presidente della Conferenza episcopale australiana, ha evidenziato la positività di aprire in questo Sinodo le porte a sacerdoti, donne, laici come membri con pieno diritto di voto e non più messi in ultima fila come avveniva in passato.

di Antonella Palermo