Addio a José Carlos,

José Carlos de Sousa aveva una malattia al fegato, pochi denti, la pelle dura di chi passa notti e giorni all’aperto tra sole e gelo. Da anni dormiva per strada «attaccato al muro» del colonnato di San Pietro. Per cibo e vestiti aveva perso interesse da tempo, l’unica cosa che chiedeva ai volontari che gli portavano i pasti erano quaderni. Fogli bianchi e puliti per appuntare le poesie che gli venivano in mente osservando il via vai di turisti, pellegrini, fedeli che ogni giorno transitano nella piazza «cuore della cristianità», che forse «lo giudicavano» vedendolo in quelle condizioni, ma ai quali lui mostrava la strada per la Basilica.
«Come un angelo che indica la via», ha detto il cardinale elemosiniere Konrad Krajewski, celebrando questa mattina le esequie dell’uomo, brasiliano, 61 anni, nella cappella di Santa Monica a Roma. A concelebrare con lui il cardinale brasiliano Leonardo Ulrich Steiner, arcivescovo metropolita di Manaus, che ha voluto prendere una pausa dai lavori del Sinodo appena saputo che si dava il commiato a un suo connazionale.
José Carlos è morto ad agosto nell’ospedale San Carlo di Roma a causa di una cirrosi epatica. Alla fine non riusciva neppure a muoversi: «Lo accompagnavamo all’ambulatorio sotto il colonnato, ma aveva i giorni contati» ricorda don Roberto Cherubini, della Comunità di Sant’Egidio. Per motivi burocratici, solo dopo due mesi è possibile dargli sepoltura nel cimitero romano di Prima Porta.
Stamattina al rito c’erano una trentina tra volontari di Sant’Egidio e Unitalsi, missionarie della Carità e sorelle di Kkottongnae di Gesù (congregazione coreana), alcuni ragazzi che hanno animato la liturgia con canti alla chitarra e, naturalmente, i compagni di strada di José. «Suore, amici e volontari», come era scritto sul nastro viola che raccoglieva la corona di fiori poggiata sulla bara in mogano.
Seduta tra le prime file c’era anche suor Elaine Lombardi, delle missionarie di Sant’Antonio Maria Claret, quella che ha conosciuto più da vicino José Carlos. «Non aveva nessuna esigenza. Io volevo fare sempre qualcosina in più. Sai, era brasiliano come me… Però mi diceva: “Sorella, non ho bisogno di niente. Lo dia agli altri, mi porti quaderni”. Era un cuore buono. Era arrivato a Roma col sogno di andare da qui a Gerusalemme. Beh, oggi ci è riuscito… È andato nella Gerusalemme celeste».
di Salvatore Cernuzio