Tra disillusione,
Senza alcuna sorpresa, domenica 6 ottobre, il presidente Kais Saied, in carica dal 2019, è stato riconfermato alla guida della Tunisia, vincendo le elezioni con il 90,7% dei voti. Sebbene gli aspiranti candidati alla massima carica istituzionale del Paese nordafricano fossero 17, solo a due è stato permesso di partecipare: Ayachi Zammel, industriale liberale di 47 anni, sconosciuto al grande pubblico, che ha raccolto il 7,35% e che si trova in carcere dall’inizio di settembre, condannato a oltre 14 anni di prigione per presunte falsificazioni delle firme a sostegno della sua candidatura, e Zouhair Maghzaoui, 59 anni, ex-deputato della sinistra panarabista, che non è arrivato al 2%. Circa cento gli esponenti del partito islamico di Ennahda che si trovavano in carcere prima del voto. Solo dopo ne sono stati liberati 40.
Opposizioni e autorità civili hanno parlato pertanto di una «deriva autoritaria» di Saied, che era stato eletto cavalcando la disillusione del Paese verso la classe politica emersa dalla “Rivoluzione dei gelsomini” del 2011. La Tunisia fu infatti il primo Paese a sperimentare la cosiddetta “Primavera Araba”, allontanando dalla guida del Paese, con le proteste di piazza, il presidente Ben Ali, che aveva governato dal 1987. Seguirono poi manifestazioni in Egitto, Libia, Siria, ma era alla Tunisia che la comunità internazionale guardava con particolare interesse, soprattutto per il coinvolgimento della società civile del Paese e per la nuova Costituzione, giudicata una delle più avanzate nel mondo arabo per pluralismo e libertà di espressione. Al “Quartetto per il dialogo” tunisino, formato da attivisti, sindacalisti, imprenditori e avvocati, fu anche assegnato il Premio Nobel per la pace nel 2015, ma crisi economica e covid hanno portato la popolazione a una costante disaffezione verso la politica, passando dalle mobilitazioni di piazza ad un’affluenza per questo turno elettorale di solo il 29%, la quarta più bassa di un’elezione presidenziale al mondo. «C’è un sentimento di profondo disincanto nel Paese che si trasforma in una significativa fuga di cervelli», spiega Michele Brignone, esperto dell’area e direttore delle ricerche della Fondazione Oasis, centro internazionale che promuove la conoscenza del mondo islamico e l’incontro tra cristiani e musulmani. «La Tunisia aveva un ottimo sistema di istruzione, aveva professionisti capaci. Molti di questi, medici e insegnanti, hanno lasciato il Paese», precisa, sottolineando il «dato impressionante», dell’affluenza «del 6% tra gli under 35». «Uno psicologo tunisino che si occupa di immigrazione — racconta ancora — mi diceva che ormai quando ai giovani si chiede che lavoro vogliano fare da grandi non rispondono il medico o l’avvocato o il calciatore, ma dicono che vogliono emigrare in Europa».
La Tunisia, inoltre, sta diventando uno dei maggiori porti di partenza, insieme alla Libia, per le persone migranti che cercano di attraversare il Mediterraneo. Il Paese tuttavia «non è un luogo sicuro per le persone soccorse in mare», come indicato da 62 organizzazioni umanitarie, locali e internazionali, molte delle quali impegnate nella ricerca e il soccorso in mare. In una dichiarazione del 4 ottobre scorso la loro denuncia è stata quella di «una dilagante violazione dei diritti umani contro migranti, richiedenti asilo e rifugiati che spesso vengono rimandati nel deserto dopo essere stati soccorsi in mare». Tra le accuse rivolte a Tunisi: la mancanza di un sistema di asilo; la repressione della società civile; la scarsa indipendenza della magistratura e dei media e l’impossibilità di determinare in modo corretto e individualmente la nazionalità di migranti e richiedenti asilo, valutandone le esigenze di protezione. Una situazione che — è stato fatto notare — è in un certo qual modo favorita dalle politiche europee di esternalizzazione nella gestione delle frontiere verso la Tunisia, che sostengono le autorità di sicurezza: sarebbero poi loro, secondo le ong, a commettere tali violazioni, ostacolando il diritto delle persone a lasciare il Paese. «Il primo soccorso è in realtà un respingimento, perché le persone vengono portate nel luogo da cui scappano e la loro incolumità è a rischio», spiega don Mattia Ferrari, cappellano di Mediterranea Saving Humans, una delle ong che hanno firmato la dichiarazione. «In molti casi le persone che sono state prese in mare dalla guardia nazionale tunisina, una volta sbarcate a terra, sono state caricate negli autobus e sono state portate nel deserto. Questa cosa è gravissima. Considerare la Tunisia un porto sicuro quando avvengono queste cose è qualcosa di ingiusto e di inaccettabile».
di Michele Raviart