Dall’Homo viator
Quando nel 1945 il filosofo Gabriel Marcel pubblica il saggio Homo viator riprende un’antica immagine usata spesso nel cristianesimo per indicare il singolo essere umano ma anche la Chiesa stessa. Scriveva Marcel che l’uomo è “viator” nel senso che «è l’uomo in cammino, esso desidera e spera così si apre al futuro”. Così la Chiesa che è sempre “per via”, di passaggio, pellegrina che procede per le strade nel mondo verso una meta altra che è oltre. Sono tanti i volti che può assumere quest’uomo viandante: dal cammino di Abramo verso una terra che il Signore gli avrebbe mostrato, al pellegrinaggio medievale, fino ad altri tipi di “viaggi”, antichi e contemporanei, quelli dei migranti e dei profughi di ogni guerra, delle carestie e siccità e, come si dice sempre di più oggi, dei cambiamenti climatici.
Rispetto a tutto questo è un uso molto recente quello del viaggiare ai fini meramente turistici. Nel ’700 nasce il Grand tour, con meta privilegiata proprio l’Italia, ma è un fenomeno di élite. Sono passati oltre due secoli e quel fenomeno è diventato di massa. In un recente articolo su Avvenire, l’economista Luigino Bruni riflettendo sull’opera di Roberto Calasso, sottolinea un pensiero del noto editore e saggista per cui l’uomo contemporaneo, se perde il senso del sacro, diventa un “eterno turista”. Dall’Homo viator all’Homo viatour. Il passo è breve anche se la distanza tra i due concetti è grande. È il tema affrontato nella rubrica “#CantiereGiovani” che troverete nelle pagine 4 e 5. (andrea monda)
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