Sinodo dei vescovi
«Purtroppo il mondo tace oppure dà il semaforo verde a tutte queste violenze perché ci sono troppi interessi politici ed economici che non hanno niente a che fare con i valori cristiani»: è l’amara considerazione espressa da monsignor Mounir Khairallah, vescovo di Batrun dei Maroniti, al momento delle domande dei giornalisti nel briefing odierno nella Sala stampa della Santa Sede.
Da un Libano lacerato, la speranza tuttavia ancora resiste: che, anche grazie alla diplomazia vaticana, il Libano continui a essere messaggio di pace. Così nelle parole del presule che ricorda come la risoluzione sul riconoscimento di due Stati e due popoli (Israele e Palestina) sia stata negli anni la più rifiutata dai politici in Israele. «Non voglio dire che tutti gli israeliani sono per la violenza — ha osservato — solo che gli interessi vengono prima e anche l’Occidente non ci sostiene così come non sostiene i popoli oppressi. Che questi possano avere il diritto di decidere della loro sorte».
L’assise sulla sinodalità è una buona occasione per ribadire la centralità di chi maggiormente soffre violenza e povertà, è stato ribadito con la stampa: «La più grande decisione da prendere è che la Chiesa, attraverso il Sinodo, sia messaggera del vivere insieme, del rispetto per l’altro e della necessità di liberarci dalla paura dell’altro». Così ha chiosato monsignor Khairallah: «Sarebbe un primo passo come grande raccomandazione per l’umanità».
E a vivere uno stato di insicurezza ormai cronica è Haiti, di cui ha parlato monsignor Launay Saturné, arcivescovo di Cap-Haïtien. «Chi dovrebbe portare l’ordine e la pace finora non è stato all’altezza delle responsabilità» ha scandito il presule parlando di un rispetto della dignità della persona umana che «è ben lungi dall’essere una realtà». Ha ricordato l’ultimo recente «massacro» del 3 ottobre che ha causato settanta morti, tante case incendiate e molti sfollati. Sono le gang armate le artefici, lo avevano anche annunciato, ha denunciato il presule, ma non si è fatto nulla per prevenire. «Siamo nella disperazione» è anche qui lo sconsolato appello.
Nella capitale il 70 per cento della popolazione è costretta a fuggire, ha denunciato ancora monsignor Saturné, sottolineando l’impatto negativo sulla vita dei giovani e la missione della Chiesa. Molte parrocchie sono state chiuse nel Paese, nondimeno la riflessione sulla sinodalità è stata portata avanti. L’arcivescovo ha spiegato che anche dal punto di vista economico, negli ultimi cinque anni non c’è stato nessun progresso, che il Paese è tagliato in due senza possibilità di comunicazione tra nord e sud e che non c’è stabilità sufficiente per preparare le elezioni. In questo contesto, missione, comunione e partecipazione risultano valori quanto mai fondamentali da potenziare. Molti gruppi di religiosi cercano di trasmettere questi valori ai giovani, racconta, perché un giorno possano costruire una società che ad essi fa riferimento. La Conferenza episcopale haitiana ha intanto chiesto che i tempi della cosiddetta transizione non siano troppo lunghi e si è pure fatta portavoce presso le «forze multinazionali» della domanda di assunzione di questa responsabilità. I vescovi, che tanto ringraziano il Papa per l’attenzione con cui segue i fatti dello Stato dei Caraibi, hanno inoltre fatto appello all’intera popolazione, perché tutti devono dare il proprio contributo.
Pablo Virgilio S. David, vescovo di Kalookan (Filippine), fa parte della Commissione per l’Informazione della xvi Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi. Al briefing ha raccontato della consultazione continentale con i parroci che si è tenuta tra le due assemblee sinodali. In particolare, del rapporto tra sinodalità e missione alla luce del fenomeno migratorio che interessa le Filippine: un fenomeno che è non solo internazionale ma, negli ultimi tempi, soprattutto locale: dalle province alle grandi città. Il presule ha indicato alcuni dati per sottolineare l’incremento dei flussi dalle campagne: da 1,5 milioni di persone a 4 milioni, in circa dieci anni, si sono spostati verso Manila. Con la conseguenza che alcuni residenti li hanno considerati una minaccia. «Quando è venuto il Papa nel 2015 ci ha detto di andare nelle periferie. E noi lo abbiamo fatto. Abbiamo creato 20 stazioni di missione nella mia diocesi», precisa ancora il vescovo. Così le parrocchie si stanno trasformando in senso sempre più missionario.
Una caratteristica che in qualche modo dovrà implementare anche una società completamente diversa come, per esempio, quella canadese, di cui ha accennato ai giornalisti Catherine Clifford, una delle testimoni del processo sinodale (America del Nord). «Vediamo che il Sud del mondo sta assumendo un ruolo sempre più centrale nelle nostre conversazioni» ha ammesso. L’importante, ha aggiunto, è far capire, lei ha detto di farlo sempre con i suoi studenti, nonostante le tante sfide dal punto di vista demografico e il processo di svuotamento delle chiese, che «la Chiesa non sta sparendo».
di Antonella Palermo