La XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi - Seconda sessione
La luce di Dio
“Ascolta, creatore pietoso”: nel canto iniziale della Veglia penitenziale presieduta nella basilica di San Pietro da Papa Francesco nel tardo pomeriggio di ieri, 1° ottobre, è racchiuso uno dei significati primari del Sinodo sulla sinodalità: quello della conversione.
Una celebrazione sobria, ma intensa, organizzata dalla segreteria generale del Sinodo e dalla diocesi di Roma in collaborazione con l’Unione dei superiori generali e l’Unione internazionale delle Superiore Generali, e alla quale hanno partecipato circa 2.500 fedeli, in particolare giovani. Ad animarla due cori: quello della diocesi di Roma, diretto da monsignor Marco Frisina, e quello della comunità congolese residente nell’Urbe. Con semplicità, i partecipanti e i membri dell’Assemblea sinodale, insieme ai giovani e ai fedeli romani, si sono predisposti all’ascolto. Ascolto della Parola di Dio, ma anche gli uni degli altri.
Dopo la lettura di un passo del profeta Isaia (58, 1-14), toccante è stato il momento delle testimonianze: tre voci che hanno narrato tre drammi diversi e distanti, ma uniti dal dolore. I drammi degli abusi, delle migrazioni, della guerra. Il primo ad accostarsi al microfono è stato Laurence: all’età di 11 anni, in Sud Africa, è stato abusato da un sacerdote. «Mi condusse per mano in un luogo buio dove, nel silenzio urlante, mi tolse ciò che non dovrebbe mai essere tolto a nessun bambino» ha detto, denunciando con fermezza «il velo di segretezza che la Chiesa, storicamente, è stata complice nel mantenere». Laurence oggi ha 53 anni, è baritono di professione, ma non ha dimenticato la violenza subita, l’anonimato che circonda spesso le vittime, «ridotte al silenzio dalla paura, dallo stigma o dalle minacce».
Con chiarezza, quest’uomo ha parlato di «mancanza di trasparenza all’interno della Chiesa», di «accuse ignorate, insabbiate», di una mancanza di responsabilità che ha compromesso la fiducia dei credenti. Ma non solo: le conseguenze di tali abusi, ha concluso Laurence, vanno «ben oltre le mura della Chiesa», provocando «una crisi di fiducia che si riverbera nella società» perché «quando un’istituzione così importante come la Chiesa cattolica non riesce a proteggere i suoi membri più vulnerabili, trasmette il segnale che la giustizia e la responsabilità sono negoziabili».
Mite, ma ferma, è stata anche la voce di Sara, direttrice regionale, in Toscana, della Fondazione Migrantes. Dalla diocesi di Carrara, è arrivata in San Pietro per testimoniare i tanti sbarchi migratori che avvengono nella sua città. «Nel nostro porto — ha spiegato — arrivano quelli che sono sopravvissuti» sopravvissuti a viaggi disumani, alla fame e alla sete, alle violenze di ogni genere che lasciano segni sulla pelle, ma soprattutto nell’anima. Chi sale su un “barcone della speranza”, ha proseguito, non trova la solidarietà di una comunità che viaggia insieme, bensì la solitudine di chi lotta per la sopravvivenza, come accadeva nei campi di sterminio, dove non c’erano persone, ma soltanto numeri. Dalle parole della responsabile di Migrantes Toscana è emersa anche la speranza di chi, trepidante, attende in porto l’arrivo di un familiare, un amico, vivendo nel terrore di non sapere se sia sopravvissuto o meno al viaggio.
Il percorso della migrazione, ha ricordato ancora Sara, è più difficile per le donne, «silenziose e invisibili», spesso vittime di violenze sia nei Paesi d’origine che durante la fuga verso una vita migliore. Costrette ad abbandonare i propri figli per timore che non sopravvivano al viaggio, “muoiono dentro”, schiacciate dalla solitudine e dal rimorso, ma consapevoli che l’unica possibilità per creare un futuro possibile è migrare. «Non hai altra scelta: se vuoi avere anche solo una possibilità di sopravvivere e di continuare a dare speranza ai tuoi figli, ti imbarchi» ha raccontato Sara.
Insieme a lei, c’era anche Solange: nata in Costa d’Avorio, è sbarcata a Carrara cinque mesi fa e davanti ai partecipanti al Sinodo ha portato «tutta la mia Africa». «Noi oggi siamo qua per testimoniare un’umanità nuova», ha concluso Sara.
La terza testimonianza è giunta da un Paese in guerra, la Siria, raccontata dalla voce di suor Deema Fayyad. Originaria di Homs e membro della comunità monastica di al-Khalil — fondata nel 1991 nel monastero siro-cattolico di San Mosè l’Abissino dal gesuita Paolo Dall’Oglio, del quale non si hanno più notizie dal 2013 —, la religiosa siriana ha voluto narrare «un’esperienza di dolore profondo» come quella del conflitto che non solo distrugge «edifici e strade, ma intacca anche i legami più intimi che ci ancorano ai nostri ricordi, alle nostre radici». Con voce commossa, intrisa di grande consapevolezza, suor Deema ha rimarcato l’emergenza di lavorare sulle relazioni in un mondo «ferito da tanta violenza». Perché anche là dove la guerra tira fuori «il lato peggiore dell’uomo», portando alla luce «egoismo, violenza e avidità», è sempre possibile trovare una luce nella resistenza non violenta che vale come «una denuncia silenziosa contro chi trae profitto dalla guerra vendendo armi o conquistando terre».
Accendere piccole luci nel buio del conflitto è esattamente ciò che ha fatto la consacrata, impegnandosi con la sua comunità in favore dei giovani, creando per loro spazi di dialogo e di crescita. «Questo ci ha permesso di raccogliere tra le macerie della sofferenza umana i tesori più preziosi — ha concluso —: la solidarietà e la fratellanza, che continuano a splendere come segni di speranza e di pace» perché «anche nei momenti più oscuri, proprio lì si può incontrare Dio».
Dopo la proclamazione del passo del Vangelo di Luca sul fariseo e il pubblicano (Lc 18, 9-14), altrettanto toccante è stato il momento in cui sette cardinali hanno dato lettura di altrettante richieste di perdono, delle quali diamo conto in queste pagine. Intervallate da un canto congolese e dal Misericordias Domini intonato dall’assemblea, le richieste di perdono hanno introdotto, dopo una breve pausa di silenzio, la riflessione di Papa Francesco, seguita dalla preghiera al Signore: «Ti chiediamo perdono per tutti i nostri peccati, aiutaci a restaurare il tuo volto che abbiamo sfigurato con la nostra infedeltà — ha detto il Pontefice —. Chiediamo perdono, provando vergogna, a chi è stato ferito dai nostri peccati. Donaci il coraggio di un sincero pentimento per l’autentica conversione».
Quindi, prima della benedizione e del canto finale “Il Signore è la mia luce”, Francesco ha consegnato una copia ciascuno del Vangelo a due giovani, a un seminarista e a una suora delle missionarie della Carità: un gesto simbolico per trasmettere alle generazioni future una missione che si spera migliore, sempre più fedele alla logica del Regno di Dio. (isabella piro)