· Città del Vaticano ·

Le meditazioni affidate al domenicano Timothy Radcliffe

In ascolto a cuore aperto

 In ascolto a cuore aperto   QUO-221
30 settembre 2024

È stato il Vangelo di Giovanni (20, 1-18 e 20, 19-29) a fare da filo conduttore alle due meditazioni tenute stamane, 30 settembre, dal padre domenicano Timothy Radcliffe. Partecipante alla Seconda sessione della xvi Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi in qualità di assistente spirituale, come già lo scorso anno, il religioso ha tenuto i suoi interventi nell’Aula nuova del Sinodo.

Nella prima meditazione, padre Radcliffe si è soffermato sul tema della “Risurrezione come ricerca nel buio”. In un mondo «oscurato dalla violenza» e nel quale Dio «sembra essere in gran parte scomparso» soprattutto in Occidente, a causa di ateismo, indifferenza e scetticismo, il religioso ha esortato a porsi, come Maria Maddalena, alla ricerca del Signore. «Il mondo è pieno di pianto», ha aggiunto, citando il dramma della guerra in Paesi come il Medio Oriente, l’Ucraina, il Sudan e il Myanmar. Ma nonostante questo «buio», ha aggiunto, bisogna essere consapevoli della presenza di Dio e prestare ascolto al «grido di coloro che piangono».

Il richiamo all’«ascolto paziente, fantasioso, intelligente, con cuore aperto», che rappresenta «la disciplina della santità» è stato un altro tema affrontato da padre Radcliffe: fermo il suo monito affinché i partecipanti all’assise prestino attenzione gli uni alle domande degli altri «con rispetto e senza paura», perché solo così si potrà trovare «un nuovo modo di vivere nello Spirito». Gli interrogativi sono importanti, ha aggiunto il religioso, ma non possono essere visti semplicemente come «domande sulla possibilità o meno di concedere qualcosa […] ad esempio sul ruolo delle donne nella Chiesa». Ciò che occorre, invece, sono le domande «più profonde del nostro cuore», quelle «sconcertanti che ci invitano alla vita nuova» e senza le quali la fede finirebbe lettera morta.

Un ulteriore “strumento” dei lavori sinodali dovrà essere il riconoscimento integrale dell’altro, a partire dal suo nome, perché «Dio ci chiama sempre per nome — ha spiegato il religioso —. E il nostro nome è segno del fatto che siamo custoditi dal Signore nella nostra unicità».

In quest’ottica, il Sinodo sarà effettivamente «un momento di grazia», un incontro «fruttuoso» se i suoi partecipanti impareranno a «dire “noi”» e si vedranno gli uni gli altri non come «rappresentanti dei partiti della Chiesa», ma come «fratelli tutti», «compagni di ricerca gioiosi», perché «ogni ricercatore ha bisogno dell’altro» e anche coloro che potrebbero sentirsi esclusi dall’assise — padre Radcliffe ha citato in particolare le donne, i teologi, i parroci — in realtà sono fondamentali, poiché «senza di loro, la Chiesa non può diventare veramente sinodale».

L’assise, infatti, ha concluso, «ha bisogno di tutte le vie per amare e cercare il Signore, così come abbiamo bisogno dei cercatori del nostro tempo, anche se non condividono la nostra fede». Perché solo aprendosi al desiderio di infinito dell’altro si potrà «varare la barca della missione».

La riflessione sulla missione è stata al centro della seconda meditazione tenuta da padre Radcliffe e intitolata “La stanza chiusa a chiave”: «Il tema di questa Assemblea è una Chiesa sinodale in missione — ha detto — e il cuore di questa missione è insegnare le nostre dottrine». Un obiettivo certamente sfidante nel contesto di una società «afflitta da un profondo pregiudizio contro i dogmi», anche se non mancano le «stanze chiuse e soffocanti» rappresentate da relativismo, fondamentalismo anche religioso, materialismo, nazionalismo, scientismo che «bloccano le persone in piccole immaginazioni».

Gli insegnamenti della fede, invece — ha ribadito il padre domenicano — «aprono le porte dei nostri cuori e delle nostre menti, ci spingono oltre le piccole risposte e alla ricerca infinita di Colui che è amore infinito e verità».

Tuttavia, nelle «stanze soffocanti» i discepoli sono imprigionati anche dalla paura, che impedisce loro di «diventare vivi in Dio e quindi predicatori del Vangelo della vita in abbondanza». Invece — ha esortato padre Radcliffe — bisogna «correre il rischio di farsi male», di ferirsi, come il Signore Risorto. Questo è un rischio che vale la pena di correre, consapevoli del fatto che Dio ci ha fatto dono della sua pace, che non può essere distrutta dal nulla.

Oltre alla paura di ferirsi, ha aggiunto il religioso, c’è anche un altro timore da sconfiggere: quello avvertito da chi prova «un amore feroce per la Chiesa» e che, chiuso nella sua mentalità, ne paventa il danneggiamento a causa di riforme che modificano le tradizioni. Tutto questo, però, finisce per «rinchiuderci in un mondo ristretto, guardando al nostro ombelico ecclesiale» e pronti a denunciare le «deviazioni degli altri». Invece, «la Chiesa è nelle mani del Signore e Dio ha promesso che le porte degli inferi non prevarranno contro di essa». Bisogna quindi uscire dalle prigioni «del narcisismo e della partitocrazia» aprendosi agli «orizzonti sconfinati» nei quali Dio si rivela e perdendosi nel Suo amore. «Siamo chiamati ad avventurarci in ciò che è sconosciuto, ad abbandonare ciò che è familiare e sicuro, e a intraprendere un viaggio o una ricerca — ha sottolineato padre Radcliffe —. Eppure non ci piace correre rischi. Ci accontentiamo della persona che abbiamo realizzato o costruito perché temiamo di essere stati creati a immagine di Dio. Questa incapacità di rispondere alla chiamata alla vita, questa incapacità di fede, si chiama peccato».

Di qui, il richiamo al fatto che il Sinodo «non è un luogo per negoziare un cambiamento strutturale, ma per scegliere la vita, per la conversione e il perdono», perché «il Signore ci chiama fuori dai luoghi piccoli in cui ci siamo rifugiati e in cui abbiamo imprigionato gli altri».

Superando la violenza che alberga nei cuori, nei pensieri, nelle parole della cultura globale — ha concluso il domenicano — ciò che occorre fare è «darsi respiro, ossigeno del dibattito», consapevoli del fatto che «nessuna discordia può distruggere la nostra pace in Cristo perché in Lui siamo uno». (isabella piro)