
Dall’altalena si può sempre cadere, mi dice lui interrompendosi di colpo. Peccato, penso, suonava così bene. Ora, invece, l’uomo col violino puntato non più contro la guancia, ma contro il terreno, mi guarda sorpreso, forse infastidito. Non si era accorto di me, preso com’era dalla sua musica e anch’io mi sono lasciata prendere. Sono in ritardo, mi ero detta giungendo alle spalle dell’uomo che suonava il violino, devo andare, devo proprio andare, e, invece, sono rimasta. In quel che resta di un giardino mi sono seduta sull’altalena che, incerta, aggrappa le sue braccia a un poderoso abete, ho chiuso gli occhi e intanto l’uomo col violino suonava.
All’inizio sempre gli stessi accordi, le stesse note, poi, d’improvviso, come un fringuello che, dopo aver ripassato la lezione, prende per la prima volta il volo, anche l’uomo si è lanciato. Era allegra quella musica? O era malinconica? Era come mi sentivo io in quel momento, in quel che resta di un giardino, su quell’altalena cigolante guardando quell’uomo che suonava con la giacca spiegazzata e una bustina di plastica ai piedi. Adesso lui non suona più, mi guarda e io vorrei dirgli: Non sa quante volte sono caduta io, e non solo da un’altalena! Invece sorrido un sorriso d’autunno, lui, allora, si volta di nuovo e riprende a suonare e di nuovo io chiudo gli occhi e riprendo a dondolarmi sull’altalena, su e giù, su e giù…
Non siamo stati creati per dormire, mi ha detto Hamid stamattina. Ci siamo incontrati in un bar di Ostia per parlare della sua esperienza nel corso di giardinaggio organizzato dal Borgo Laudato si’ — un progetto che ha coinvolto una decina di persone vulnerabili e ha come obiettivo la formazione di nuovi giardinieri per poi inserirli nel mondo del lavoro. Raccontami un po’ di questo corso, dico a Hamid: che facevate, quanti eravate, ti è piaciuto, cosa hai imparato, e i tuoi compagni, com’erano, li senti ancora? Ho gettato queste domande come il seminatore della parabola: alcuni semi caddero sulla strada, altri sui rovi, altri sulla roccia e qualcuno cadde sulla terra dove crebbe e diede frutto. Forse non sono brava a seminare o non capisco dov’è la terra perché le risposte di Hamid sono rapide, non dico sbrigative, ma si vede che non è al passato, al corso ormai finito, alle cose imparate, ai compagni incontrati, cui mirano gli occhi guizzanti dell’uomo: lo sguardo di Hamid è sempre rivolto al futuro, al lavoro.
Quando lavori risolvi tutto, mi dice quest’uomo di quasi 56 anni che ne dimostra venti di meno, un uomo arrivato 30 anni fa dal Marocco senza sogni, ma con un obiettivo: fare qualcosa. Raccontami, Hamid: che cosa hai fatto in questi anni? Lui mi racconta del suo vecchio lavoro come fioraio, della sua famiglia, dei suoi tre figli, della disoccupazione in cui vive da ormai quattro anni. E tu che fai tutto il giorno? gli domando. Io cammino, mi dice Hamid, faccio lunghe camminate.
È arrivato il caffè, così gli offro una sigaretta, lui scuote il capo. Grazie, mi dice, prima fumavo due pacchetti al giorno, poi all’inizio del Ramadan mi sono detto: Da oggi mi astengo anche dal fumo. E così ha fatto, senza cerotti, senza manuali, senza neppure ingrassare, Hamid ha smesso perché se vuoi fare una cosa la fai, mi dice e nell’ascoltarlo mi accorgo di quanto siamo diversi: lui una rosa e io un cactus, io che mi faccio mille domande prima di agire, mentre lui agisce e se non può, allora, cammina.
In tutti questi anni Hamid ha camminato, e io? Io cosa ho fatto in questi due, tre, non mi ricordo più quanti anni sono che cerco lavoro e mi assale l’angoscia, il senso di vuoto, la sensazione di esser stata strappata, sradicata dal mondo che mi circonda e che continua a vivere senza di me.
Hamid, gli dico, non hai mai paura? Mai, mi dice lui col suo sguardo sempre rivolto al futuro, mai. Mi tornano alla mente le parole di mio padre che ogni giorno mi domanda: Com’è andata oggi? Come vuoi che sia andata? gli dico, non ho fatto niente. Mentre io non faccio niente, Hamid cammina: lui una rosa io un cactus.
Le piante sono tutte in connessione tra di loro, ha detto il botanico del Borgo Laudato si’ quando siamo andati a visitare quell’angolo di paradiso, quel giardino dell’Eden che sta a Castel Gandolfo. Peccato che noi non siamo piante, penso mentre sono da sola al bar. Hamid è già lontano che cammina verso la sua vita. E io vado su e giù, su e giù sulla mia altalena quando la musica di colpo s’arresta. L’uomo in quel che resta di un giardino ha di nuovo smesso di suonare e ora si volta, forse per vedere se ci sono ancora o se sono caduta dalla mia altalena. Continui, gli vorrei dire, continui pure, la sua musica è tutto quello che rimane, si guardi attorno, non c’è più nulla, se non noi due piante sradicate da questa società, se non questi poveri alberi, il mio poderoso abete su cui si aggrappa incerta l’altalena e il suo olmo, sotto cui lei suona e sotto la cui ombra sonnecchia come un cane la sua busta di plastica bianca. Cosa tiene lì? Il pranzo? Un regalo? La sua vita? Dalla giacca spiegazzata lo posso intuire, ma lei suoni, la prego, continui a suonare, mentre io continuo a dondolarmi su e giù, su e giù…
Ti senti abbandonata da Dio e dagli uomini, mi dice Suor Francesca ieri pomeriggio, mentre per l’ennesima volta mettiamo in ordine il suo guardaroba. Sono arrivata dopo pranzo nella casa di riposo dove questa piccola suorina alloggia da quasi 11 anni, subito lei mi ha messo al lavoro e da più di un’ora siamo qui, lei con accanto il suo girello e io che volta a volta le passo pigiami, vestaglie, asciugamani. Lo farei io, mi dice la piccola suora, ma il brutto è che non ci vedo. Il brutto, penso io, è che è tutto inutile: fare, disfare, mettere in ordine, per cosa? Non sono sempre quattro le stagioni e sempre la stessa la vita in cui ci dondoliamo? Su e giù, su e giù. Basta così, dice la piccola suora, si issa sul girello e a piccoli, lentissimi, impercettibili passi raggiunge la poltrona e con un tuffo si lascia cadere. Tutto il giorno qui non viene nessuno, mi dice, poi mi guarda. Ormai non ha più le forze di mettersi l’abito, indossa una vestaglia sopra il pigiama e sopra i capelli una cuffia bianca.
Ora suor Francesca guarda fuori. È una bella giornata, il sole illumina il giardino della casa che raccoglie più di cento sorelle in pensione e io ripenso al giardino di Castel Gandolfo, anche lì ci sono piante anziane come qui, ma forse al Borgo, per mantenerlo simile all’Eden, bastano due, tre, quattro giardinieri — in fondo gli alberi sanno badare a se stessi —, ma in un giardino dove gli alberi non portano frutto, ma un velo nero o una cuffia bianca sulla testa, in un giardino dove gli alberi malati non sono sostenuti da bastoni, ma da carrozzine e girelli, in quel giardino quanti giardinieri ci vogliono per far sì che le piante non muoiano, non deperiscano, non si rovinino e il giardino non svanisca?
Solo Dio, mi dice suor Francesca, solo Lui mi è rimasto accanto, e la notte, quando non riesco a dormire sai cosa faccio? Penso al Paradiso, penso a quanto sarà bello camminare in quel giardino.
Su e giù, vado su e giù sull’altalena quando squilla il telefono: Ti ho aspettato finora. Potevi almeno avvisare. Sto andando via. Di colpo mi fermo. In quel che resta di un giardino l’uomo suona ancora, suona un violino che un tempo era un legno, un tempo era un ramo, un tempo era una parte di un grande giardino, forse di questo giardino? o di una piccola foresta in cui un tempo risuonava solo il rumore del vento. Lo guardo col suo violino puntato contro la guancia, con la sua giacca spiegazzata e la sua bustina di plastica bianca in cui è racchiusa un’intera vita, poi mi guardo, coi pantaloni lisi e uno zaino pieno solo di cartacce: siamo due cactus sradicati dalla vita.
Tutte le piante sono in connessione tra di loro, diceva il botanico del Borgo, ma forse noi non siamo piante, o forse in questa città impastata d’asfalto le nostre radici non sprofondano e così non arriviamo mai a toccarci e rimaniamo soli anche quando ci siamo accanto. Mi metto lo zaino in spalla e mi incammino, ritorno in quel giardino impastato d’asfalto, mentre la musica del violino si fa sempre più distante, chissà se si volterà di nuovo per vedere se son caduta dall’altalena? La sola differenza tra noi e le piante è che loro non se ne vanno, o almeno io non ho ancora visto un albero che, intuita la mala parata, dica agli altri: Sapete che c’è? Me ne vado. No, non è colpa vostra, voi siete tutti belli, tutti slanciati, tutti verdi, tutti fioriti, ma sapete com’è, in un altro giardino c’è un certo movimento: non posso non andare. Non ho mai visto neppure interi giardini piantare in asso un albero solo perché è vecchio e cadente e chissà magari tra poco muore e allora a che serve mettergli in ordine il guardaroba, per l’ennesima volta, le stagioni non sono sempre quelle?
Sono arrivata. Tu non ci sei. Mi aggrappo al mio zaino pieno di cartacce e da sola entro nel cimitero acattolico, erano mesi che lo dicevamo: Andiamoci insieme! Avrei dovuto pensarti anziché dondolarmi su un’altalena. Dentro il cimitero è simile a un giardino in cui crescono piante di legno e piante di pietra che tutto il giorno guardano insieme l’oriente, là dove Dio piantò il suo giardino. Perché solo da morti riusciamo a essere uniti, connessi l’uno all’altro e tutti alla natura? Perché non riusciamo a stare insieme finché siamo in tempo? Poi, senza farmi altre domande, cammino, cammino verso quel che resta di un giardino, quel che resta di un uomo, quel che resta di noi, se noi lo vogliamo. E sento la musica che ancora suona…
di Violante Sergi