· Città del Vaticano ·

La video testimonianza
Le storie e le speranze di due giovani rifugiati

I morti non sognano

 I morti non sognano  QUO-220
28 settembre 2024

Una video-testimonianza che ha avuto, però, la forza impattante di un racconto dal vivo: è stata quella proiettata nel pomeriggio di ieri, 27 settembre, nella Promotiezaal della Katholieke Universiteit Leuven, nel corso dell’incontro di Papa Francesco con i docenti universitari.

Le voci di due giovani — un ragazzo palestinese di nome Alaa e una ragazza, Helen, originaria della regione etiope del Tigray, scenario di perpetrati conflitti interni — si sono alternate nel raccontare un dramma che unisce al di là dei confini geografici: quello di essere rifugiati, di dover lasciare il proprio Paese a causa della guerra e di dover vivere, o meglio sopravvivere altrove: le radici strappate, i sogni sospesi, perché — questo il titolo della video-testimonianza — «i morti non sognano».

Sullo sfondo di immagini di vita quotidiana, normali nella gestualità, ma laceranti nel cuore, i due giovani hanno narrato la loro storia. «Mia sorella sa dirti la differenza tra un razzo sparato da un aereo e uno sparato da un carro armato. Ha dieci anni — ha raccontato Alaa —. Tutti in Palestina hanno perso qualcuno. Così, non hai la possibilità di goderti l’infanzia. Ti tocca crescere in fretta».

«Una volta — ha proseguito — i palestinesi, anche i miei, potevano visitare il Mar Morto, Haifa, Giaffa o persino Gerusalemme. Tutti erano liberi di viaggiare. Parlavano sempre delle bellezze della Palestina. Ma quando ho voluto viaggiare io, non ho potuto, mi è stato impossibile. Le frontiere ormai erano chiuse. A tutti gli effetti, siamo imprigionati».

Dopo aver vinto una borsa di studio in Tunisia, il giovane si è laureato in medicina. Voleva tornare a casa, ma lì, ormai, vedeva solo «guerra e disoccupazione». La sua unica alternativa, allora, è stata quella di diventare un rifugiato. Una scelta difficile, che oggi lo costringe a vivere «tra due mondi»: l’Europa, «un posto sicuro», e la Palestina, dove ha lasciato la famiglia, una parte di sé.

«È dura — ha concluso —. La famiglia non è più unita. Spero che i miei cari saranno presto con me, di nuovo tutti insieme. Vorrei condividere un pasto con loro, con tutti quanti, alla stessa tavola. Questo è il mio sogno».

Anche Helen ha studiato medicina; l’amore per i libri glielo ha trasmesso la mamma, pur giovanissima al momento del parto. «Capiva il potere dell’istruzione — ha spiegato la ragazza nella video-testimonianza —. Ed è quello che mi ha dato. Mi spronava sempre a leggere, e mi comprava sempre dei libri. Voleva che amassi farlo. Era una cosa molto positiva. Letteralmente siamo cresciute insieme. Lei era mia amica».

La cultura ha aiutato Helen a comprendere le difficoltà che vive tuttora il genere femminile: «Non credevo che il mondo fosse contro le donne, letteralmente. Mi ha sconvolto il numero di donne che vedevo che avevano subito violenze sessuali. La cosa più disturbante è che loro stesse non sappiano di essere vittime di questa oppressione. Per loro è una questione culturale».

Non solo in Etiopia, ma anche in altri Paesi come l’Eritrea, il Congo, la Somalia, l’Afghanistan, ha aggiunto, «il tema ricorrente ovunque è: la guerra è fatta sui corpi delle donne. Perché non possono proteggersi, e vengono maltrattate».

Poi, la voce della giovane rifugiata ha cambiato tono ed è divenuta più grave quando ha iniziato a raccontare del conflitto che l’ha sorpresa nel cuore della notte: «Ero con mia sorella e mio fratello — ha detto —. Abbiamo sentito sparare. Dopo di che, non avrei mai pensato in tutta la vita di vedere così tanta distruzione. Il mattino presto abbiamo camminato per dieci ore. C’erano cadaveri ovunque. Si sentiva l’odore. Era una cosa terrificante da vedere». La realtà, già terribile di per sé, è stata resa ancora più dolorosa a causa di una nuova consapevolezza: «Sentivo che valevamo meno degli animali. Era così triste vedere i cadaveri in decomposizione per le strade».

Una seconda consapevolezza, forse ancora più triste, ha colto la giovane una volta divenuta rifugiata: «Lo dico francamente — ha affermato —: finisci marginalizzata, perché sei una rifugiata» e «ci si aspetta che tu sia grata e contenta di qualsiasi sistemazione tu abbia».

«Penso che ci sia bisogno di comprendere la gravità della situazione — ha rimarcato la donna —. Io ho anche rischiato la vita, e quella di mio fratello e sorella. Ero consapevole delle conseguenze, ma non avevo alternative».

Oggi, il sostegno dei familiari le dona la forza di andare avanti, perché «qualunque cosa accada, se sto con loro almeno sono tranquilla». Un canto struggente, intonato tra le lacrime da Helen, ha concluso la video-testimonianza.

Successivamente, al termine dell’incontro, entrambi i giovani rifugiati hanno potuto incontrare di persona il Santo Padre: le mani strette a quelle del Pontefice, hanno scambiato con lui un breve saluto e alcune parole, con occhi colmi di gratitudine e di speranza.

di Isabella Piro