· Città del Vaticano ·

Il 46° viaggio apostolico del pontificato — Belgio
Ai vescovi, al clero ai consacrati e agli operatori pastorali nella basilica del Sacro Cuore a Koekelberg

Evangelizzare è offrire a tutti un’apertura sull’infinito

 Evangelizzare è offrire a tutti un’apertura sull’infinito   QUO-220
28 settembre 2024

Conclusa la visita nella parrocchia di Saint Gilles, nella mattinata di oggi, 28 settembre, Papa Francesco ha incontrato a Bruxelles i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i consacrati e le consacrate, i seminaristi e gli operatori pastorali presso la Basilica del Sacro Cuore nel quartiere periferico di Koekelberg. Dopo il saluto rivoltogli dall’arcivescovo Luc Terlinden il Pontefice ha ascoltato le testimonianze di un prete, di un’operatrice pastorale, di un teologo, di una rappresentante dei centri di accoglienza per vittime di abusi, di una religiosa e del cappellano di un carcere. Quindi ha pronunciato il seguente discorso.

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno!

Sono felice di essere qui in mezzo a voi. Ringrazio Mons. Terlinden per le sue parole e per averci ricordato la priorità di annunciare il Vangelo. Grazie a tutti voi.

In questo crocevia che è il Belgio, voi siete una Chiesa “in movimento”. Infatti, da tempo state cercando di trasformare la presenza delle parrocchie sul territorio, di dare un forte impulso alla formazione dei laici; soprattutto vi adoperate per essere Comunità vicina alla gente, che accompagna le persone e testimonia con gesti di misericordia.

Prendendo spunto dalle vostre domande, vorrei proporvi alcune tracce di riflessione attorno a tre parole: evangelizzazione, gioia, misericordia.

La prima strada da percorrere è l’evangelizzazione. I cambiamenti della nostra epoca e la crisi della fede che sperimentiamo in Occidente ci hanno spinto a ritornare all’essenziale, cioè al Vangelo, perché a tutti venga nuovamente annunciata la buona notizia che Gesù ha portato nel mondo, facendone risplendere tutta la bellezza. La crisi — ogni crisi — è un tempo che ci è offerto per scuoterci, per interrogarci e per cambiare. È un’occasione preziosa — nel linguaggio biblico si dice kairòs, occasione speciale — come è successo ad Abramo, a Mosè e ai profeti. Quando sperimentiamo la desolazione, infatti, sempre dobbiamo chiederci quale messaggio il Signore ci vuole comunicare. E cosa ci fa vedere la crisi? Siamo passati da un cristianesimo sistemato in una cornice sociale ospitale a un cristianesimo “di minoranza”, o meglio, di testimonianza. E questo richiede il coraggio di una conversione ecclesiale, per avviare quelle trasformazioni pastorali che riguardano anche le consuetudini, i modelli, i linguaggi della fede, perché siano realmente a servizio dell’evangelizzazione (cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 27).

E vorrei dire a Helmut: anche ai preti è richiesto questo coraggio. Essere preti che non si limitano a conservare o gestire un patrimonio del passato, ma pastori, pastori innamorati di Cristo e attenti a cogliere le domande di Vangelo — spesso implicite — mentre camminano con il Popolo santo di Dio; e noi camminiamo un po’ davanti, un po’ in mezzo e un po’ in fondo. E quando portiamo il Vangelo — penso a quello che ci ha detto Yaninka — il Signore apre i nostri cuori all’incontro con chi è diverso da noi. È bello, anzi è necessario che tra i giovani ci siano sogni e spiritualità diverse. Dev’essere proprio così, perché tanti possono essere i percorsi personali o comunitari, che ci conducono però alla stessa meta, all’incontro con il Signore: nella Chiesa c’è spazio per tutti — tutti, tutti! — e nessuno dev’essere la fotocopia dell’altro. L’unità nella Chiesa non è uniformità, ma è trovare l’armonia delle diversità! E anche ad Arnaud direi: il processo sinodale dev’essere un ritorno al Vangelo; non deve avere tra le priorità qualche riforma “alla moda”, ma chiedersi: come possiamo far arrivare il Vangelo in una società che non lo ascolta più o si è allontanata dalla fede? Chiediamocelo tutti.

Seconda strada: la gioia. Non parliamo qui delle gioie legate a qualcosa di momentaneo, né possiamo assecondare i modelli dell’evasione e del divertimento consumistico. Si tratta di una gioia più grande, che accompagna e sostiene la vita anche nei momenti oscuri o dolorosi, e questo è un dono che viene dall’alto, da Dio. È la gioia del cuore suscitata dal Vangelo: è sapere che lungo il cammino non siamo soli e che anche nelle situazioni di povertà, di peccato, di afflizione, Dio è vicino, si prende cura di noi e non permetterà alla morte di avere l’ultima parola. Dio è vicino, vicinanza. Molto prima di diventare Papa, Joseph Ratzinger scrisse che una regola del discernimento è questa: «Dove manca la gioia, dove l’umorismo muore, qui non c’è nemmeno lo Spirito Santo […] e viceversa: la gioia è un segno della grazia» (Il Dio di Gesù Cristo, Brescia 1978, 129). È bello! E allora vorrei dirvi: che il vostro predicare, il vostro celebrare, il vostro servire e fare apostolato lasci trasparire la gioia del cuore, perché questo suscita domande e attira anche coloro che sono lontani. La gioia del cuore: non quel sorriso finto, del momento, la gioia del cuore. Ringrazio Suor Agnese e le dico: la gioia è la strada. Quando la fedeltà appare difficile, dobbiamo mostrare — come tu hai detto, Agnese — che essa è un “cammino verso la felicità”. E, allora, intravedendo dove conduce la strada, si è più pronti a iniziare il cammino.

E terza via: la misericordia. Il Vangelo, accolto e condiviso, ricevuto e donato, ci conduce alla gioia perché ci fa scoprire che Dio è il Padre della misericordia, che si commuove per noi, che ci rialza dalle nostre cadute, che non ritira mai il suo amore per noi. Fissiamo questo nel cuore: mai Dio ritira il suo amore per noi. “Ma Padre, anche quando ho commesso qualcosa di grave?”. Mai Dio ritira il suo amore per te. Questo, davanti all’esperienza del male, a volte può sembrarci “ingiusto”, perché noi applichiamo semplicemente la giustizia terrena che dice: “Chi sbaglia deve pagare”. Tuttavia la giustizia di Dio è superiore: chi ha sbagliato è chiamato a riparare i suoi errori, ma per guarire nel cuore ha bisogno dell’amore misericordioso di Dio. Non dimenticatevi: Dio perdona tutto, Dio perdona sempre; è con la sua misericordia che Dio ci giustifica, cioè ci rende giusti, perché ci dona un cuore nuovo, una vita nuova.

Perciò a Mia direi: grazie per il grande lavoro che fate per trasformare la rabbia e il dolore in aiuto, vicinanza e compassione. Gli abusi generano atroci sofferenze e ferite, minando anche il cammino della fede. E c’è bisogno di tanta misericordia, per non rimanere col cuore di pietra dinanzi alla sofferenza delle vittime, per far sentire loro la nostra vicinanza e offrire tutto l’aiuto possibile, per imparare da loro — come hai detto tu — a essere una Chiesa che si fa serva di tutti senza soggiogare nessuno. Sì, perché una radice della violenza consiste nell’abuso di potere, quando usiamo i ruoli che abbiamo per schiacciare gli altri o per manipolarli.

E misericordia — penso al servizio di Pieter — è una parola-chiave per i carcerati. Quando io entro in un carcere mi domando: perché loro e non io? Gesù ci mostra che Dio non si tiene a distanza dalle nostre ferite e impurità. Egli sa che tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato. Nessuno è perduto per sempre. È giusto, allora, seguire tutti i percorsi della giustizia terrena e i percorsi umani, psicologici e penali; ma la pena dev’essere una medicina, deve portare alla guarigione. Bisogna aiutare le persone a rialzarsi, a ritrovare la loro strada nella vita e nella società. Soltanto una volta nella vita di tutti ci è permesso guardare una persona dall’alto in basso: per aiutarla a rialzarsi. Solo così. Ricordiamoci: tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato, nessuno è perduto per sempre. Misericordia, sempre, sempre misericordia.

Sorelle e fratelli, vi ringrazio. E nel salutarvi vorrei ricordare un’opera di Magritte, vostro illustre pittore, che si intitola “L’atto di fede”. Rappresenta una porta chiusa dall’interno, che però è sfondata al centro, è aperta sul cielo. È uno squarcio, che ci invita ad andare oltre, a volgere lo sguardo in avanti e in alto, a non chiuderci mai in noi stessi, mai in noi stessi. Questa è un’immagine che vi lascio, come simbolo di una Chiesa che non chiude mai le porte — per favore, non chiude mai le porte! —, che a tutti offre un’apertura sull’infinito, che sa guardare oltre. Questa è la Chiesa che evangelizza, vive la gioia del Vangelo, pratica la misericordia.

Sorelle e fratelli, camminate insieme, voi e lo Spirito Santo, insieme, e praticate la misericordia, per essere Chiesa così. Senza lo Spirito, non succede nulla di cristiano. Ce lo insegna la Vergine Maria, nostra Madre. Lei vi guidi e vi custodisca. Benedico tutti di cuore. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!