· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
La storia di uno dei più grandi carceri del Kenya

Kamiti il riscatto
al di là della pena

Kenya prison warders walk past the entrance of the Kamiti Maximum Security Prison in Nairobi, on ...
27 settembre 2024

Rovistare tra le carte che si accumulano, quasi fisiologicamente, in alte pile sulla scrivania, è di solito una costante, persino uno dei passatempi preferiti da parte di chi scrive. Sta di fatto che, il ritrovamento degli appunti di una visita che ebbi modo di svolgere in un penitenziario keniano, prima che divampasse la pandemia, è coinciso con la richiesta, da parte della redazione di questo giornale, di scrivere qualcosa su quella che è stata la mia esperienza in questi anni, come cronista missionario, visitando le carceri disseminate nel continente.

Ho dunque pensato che fosse opportuno, per una curiosa coincidenza, riportare la storia del penitenziario di Kamiti, in Kenya. Tengo a precisare che il racconto in quanto tale risale al 2018, anche se poi, stando alle informazioni che ho raccolto in questi giorni, le cose non sono molto cambiate. Anzi, la crisi economica che attanaglia questo paese a causa della questione debitoria è tale per cui il settore carcerario viene costantemente penalizzato.

Quando si arriva di fronte all’ingresso principale del “Kamiti Maximum Security Prison”, non si ha davvero idea di cosa ci sia dentro il recinto fatto di pali, reti, muretti, filo spinato e torrette di vigilanza. Qualcosa, certamente, si può intuire, ma la vegetazione è così rigogliosa per cui tutto diventa intelligibile solo attraversando la soglia. Nell’immaginario della gente comune, in Kenya, Kamiti evoca una sorta di girone dantesco, un luogo blindato, impenetrabile, con notizie poco chiare o totalmente assenti, il posto peggiore in cui nessuno vorrebbe ritrovarsi. Dista una decina di chilometri dalla parrocchia cattolica di Kariobangi, nell’estrema periferia di Nairobi. La sicurezza è strettissima ed è permesso l’ingresso solo previa autorizzazione delle autorità competenti. Situato su una superficie di oltre 5 chilometri quadrati e vigilata da un migliaio di guardie carcerarie, Kamiti ospitava, quando ebbi modo di visitarla nel 2018, oltre 4.000 detenuti: 3.000 nel settore di massima sicurezza e 1.200 in quello per reati minori.

Costruito in epoca coloniale dagli inglesi durante il periodo dell’insurrezione dei Mau Mau, successivamente, nel ventennio del partito unico, 1982-2002, era il posto dove finivano molti dissidenti politici, molti dei quali finirono giustiziati senza processo. Oggi, Kamiti ospita un ventaglio variegato di detenuti, molti dei quali hanno commesso i più efferati delitti elencati nei manuali di criminologia. Questa famigerata prigione — è bene rammentarlo — venne alla ribalta con l’elezione, nel 2009, del primo presidente Usa di origini afro, Barack Obama. Suo nonno, infatti, un certo Hussein Onyango Obama, venne incarcerato e brutalmente torturato dai militari britannici durante la lotta di indipendenza del Kenya. Lo raccontarono al «The Times» i familiari keniani dell’ex leader statunitense, e in particolare la terza moglie del nonno, che l’ex presidente Usa chiama, ancora oggi, affettuosamente “Granny (nonna) Sarah”. Hussein Onyango Obama, entrò in contatto con il movimento per l’indipendenza dal Regno Unito, mentre lavorava come cuoco per un ufficiale inglese. Fu arrestato nel 1949, a 56 anni, e tenuto per due anni a Kamiti in condizioni subumane. Secondo la famiglia, durante quel periodo fu ferocemente torturato affinché fornisse informazioni sugli insorti. Sta di fatto che da allora, bisogna riconoscerlo, alcuni progressi sono avvenuti e l’impegno formale dell’amministrazione penitenziaria è stato in questi anni quello di promuovere buone pratiche in termini di rispetto per i diritti umani fondamentali, intendendo con ciò la pulizia delle celle, acqua e cibo, assistenza sanitaria, divieto di tortura. Inoltre, per alcune categorie di detenuti, sono stati avviati programmi di sostegno psico-sociale e formazione professionale per il reinserimento lavorativo e comunitario, soprattutto per quelli che hanno dato prova di buona condotta o sono in uscita.

C’è da considerare che il ritorno in libertà rappresenta il momento con più alta probabilità di recidiva, in particolare per tutte quelle persone che non sono supportate da una rete sociale e che non possiedono conoscenze spendibili nel mondo del lavoro. A differenza di quanto avviene nella stragrande maggioranza delle carceri africane, a Kamiti si trovano due riformatori: uno maschile, lo Youth Correctional and Training Centre (Yctc), e un altro femminile, il Kamae Girls Borstal. È difficile sapere se davvero tutti i minori di Kamiti siano effettivamente separati dagli adulti, anche perché questa pratica, per quanto sia di capitale importanza, è solitamente ignorata nel sistema carcerario africano. Formalmente, comunque, almeno in Kenya, la distinzione tra prigionieri adulti e minori e di genere è sancita dalla legge (Kenyan Prisons Act del 2014). L’implementazione di tale normativa incontra comunque ancora oggi diversi ostacoli, dalla carenza di risorse al non appropriato coordinamento tra i centri e i diversi livelli di governance del sistema penitenziario e di giustizia minorile, al sovraffollamento strutturale delle strutture correzionali e detentive. Stando ai dati forniti da recenti indagini sociologiche, i detenuti minorenni presenti a Kamiti, provengono prevalentemente da famiglie delle aree rurali del Kenya e sono cresciuti in condizioni di estrema precarietà economica ed esclusione sociale. In maggioranza non hanno potuto frequentare la scuola o ne sono stati espulsi per comportamenti indisciplinati. Sono proprio la mancanza di percorsi educativi e di avviamento al lavoro, insieme al pregiudizio per lo stigma provocato dalla detenzione a determinare per loro il difficilissimo reinserimento sociale e quindi un’alta probabilità di recidiva.

Di fronte a questa sfida umanitaria, personalmente, rimasi molto colpito dalla testimonianza delle missionarie della Consolata che hanno realizzato la Saint Joseph Cafasso Consolation House (Sjcch), una casa di accoglienza per i ragazzi ex detenuti dedicata a San Giuseppe Cafasso, che nella sua vita ha sempre accompagnato le persone condannate a morte stando loro vicino, ascoltandole, pregando con loro, preparandole ad affrontare la morte e dando loro consolazione. Questo centro, che sorge all’interno dell’area perimetrale di Kamiti, è stato concepito con l’intento che questi giovani possano un giorno diventare parte attiva e responsabile della società. Al St. Joseph Cafasso Consolation House, ogni ragazzo ha la possibilità di seguire un percorso spirituale, di frequentare la scuola e di imparare i diversi lavori agricoli che nella comunità vengono svolti ogni giorno. Sono infatti organizzate, con il duplice obiettivo di insegnare un lavoro professionalizzante ai ragazzi e di favorire la sostenibilità del progetto diverse attività tra cui: allevamento di conigli e polli per la vendita, allevamento di mucche da latte, coltivazione dei campi e di ortaggi in serra, oltre alla produzione e vendita del pane.

Ma proprio perché la solidarietà, in queste periferie geografiche ed esistenziali del nostro tempo, esige nuove sinergie tra le varie realtà impegnate nella cooperazione allo sviluppo, durante la mia visita a Kamiti rimasi molto colpito dallo zelo delle missionarie della Consolata le quali, con il coinvolgimento diretto e altamente qualificato di una ong italiana, il Cefa di Bologna e la Caritas Ambrosiana, hanno avviato in questi anni un progetto specifico per la riabilitazione degli ex giovani detenuti, per aiutare quella gioventù bruciata che ha la grazia di venire fuori da quella bolgia per reinserirsi nella vita quotidiana. Studio, lavoro manuale e tanta umanità... Nello specifico, sono state promosse diverse iniziative di sostegno psicosociale e socioeconomico rivolte ai giovani detenuti del centro per minori corrigenti (Yctc) e ai giovani ex detenuti del centro di accoglienza (Sjcch), attraverso sessioni di accompagnamento psicologico (counselling), oltre all’acquisizione di abilità cognitive, emotive e relazionali di base (life skill training) e al sostegno economico alla formazione scolastica e professionale. Da rilevare che la Conferenza episcopale italiana (Cei) ha cofinanziato questa iniziativa attraverso il sistema dell’8xmille. Soldi davvero spesi bene! 

di Giulio Albanese