Settant’anni fa, il 19 agosto 1954, moriva Alcide De Gasperi. Fino al giorno in cui è tornato alla casa del Padre, questo eminente politico, uno dei «padri dell’Europa», si è preoccupato del futuro della costruzione comunitaria allora nascente. Nonostante una salute ormai fragile, colui che presiedeva ancora l’assemblea parlamentare della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) avrebbe voluto recarsi quello stesso 19 agosto a Bruxelles, dove si sarebbero riuniti i ministri dell’Europa dei Sei per esaminare il progetto di Comunità europea di difesa. Il futuro di quel trattato era caro a De Gasperi, per il quale a un’unione politica andava associata un’integrazione militare. Ma sapeva che quelle visioni federaliste, ispirate dal suo compatriota Altiero Spinelli, avrebbero incontrato l’ostilità della Francia. Di fatto, il 30 agosto 1954 l’Assemblea Nazionale a Parigi, respinse la Ced, trascinando con sé il suo corollario, il progetto di Comunità politica europea. In quella fine estate del ‘54, l’Europa perdeva uno dei suoi più ardenti promotori e al tempo stesso uno dei suoi più ambiziosi progetti d’integrazione, a cui anche la Santa Sede guardava con interesse.
Da notare che, a distanza di settant’anni, i progetti di un’Europa di difesa e di unione politica sono riaffiorati, sebbene sotto altre forme. L’idea di un’Europa di difesa è ritornata attuale. Non sotto la forma audace della Ced ma, più prosaicamente, attraverso una serie di iniziative della Commissione uscente per incoraggiare gli acquisti congiunti di armamenti, creare capacità produttive aggiuntive e mobilitare nuovi mezzi di finanziamento. La guerra in Ucraina, la minaccia russa e l’incertezza sul tenore dell’impegno americano nella Nato stanno spingendo gli europei a sviluppare un proprio pilone di difesa, senza voltare le spalle all’atlantismo. La difesa figura in buona posizione nell’agenda strategica dei Ventisette adottata lo scorso giugno e si preannuncia come una priorità della seconda Commissione von der Leyen. Anche l’influente rapporto di Enrico Letta sul futuro del mercato unico sostiene il suo sviluppo. È sempre in questo ambito che il nuovo primo ministro britannico, Keir Starmer, vuole operare un riavvicinamento del suo Paese. In ogni caso, non si tratta solo di difesa militare ma anche e più in generale di sicurezza da garantire collettivamente dinanzi alle minacce ibride (infrastrutture, cybersicurezza, disinformazione, approvvigionamenti critici) che gli europei devono affrontare.
Dibattere questi temi così sensibili esige che s’instauri un clima di fiducia. È ciò a cui mira la nuova Comunità politica europea iniziata dal presidente francese Emmanuel Macron nel 2022, a seguito della guerra in Ucraina. Questa Cpe indubbiamente non ha nulla a che vedere con il progetto istituzionale omonimo sostenuto da De Gasperi. Non ha assolutamente nulla di federalista, anzi. A confronto appare molto modesta. Ma vi si può scorgere la volontà di privilegiare una «cultura del dialogo» — per riprendere un’espressione di Papa Francesco — tra i dirigenti di tutto il continente, dei grandi e dei piccoli Paesi, che appartengano all’Unione Europea, che ne siano usciti o che ancora non ne facciano parte.
Il Regno Unito post-Brexit ha compreso subito la rilevanza di questo nuovo formato, che ha ospitato lo scorso 18 luglio. Il prossimo vertice (il quinto) è previsto il 7 novembre sotto la presidenza ungherese. Nel 2025 sono già previsti altri due vertici, in Albania e poi in Danimarca. È presto per sapere a che cosa potranno portare questi incontri regolari a porte chiuse tra una quarantina di capi di Stato e di governo senza conclusioni da adottare. Ma forse è timidamente ripreso un lento processo di trasformazione. Mentre la Germania continua a interrogarsi sul suo valore aggiunto, questo nuovo spazio di dialogo strategico europeo, che anticipa in parte l’allargamento della Ue, merita di essere seguito attentamente. Va anche apprezzato alla luce delle nuove espressioni di un’Europa di difesa.
Dinanzi a queste sfide, l’Europa invoca dirigenti con la stessa ampiezza di vedute e la stessa volontà di De Gasperi. Com’è noto, quest’ultimo rispose subito favorevolmente all’idea di un pool del carbone e dell’acciaio proposto da Robert Schuman il 9 maggio 1950. Aveva capito che l’Italia avrebbe ritrovato così il suo posto in Europa. Eppure l’industria siderurgica era poco sviluppata nella Penisola. Confindustria era scettica riguardo al piano promosso da Jean Monnet. Politicamente, De Gasperi affrontò la feroce opposizione dei comunisti e di alcuni socialisti. Ciononostante, il presidente del Consiglio italiano nel 1952 riuscì a far ratificare dalle Camere il trattato che istituiva la Ceca. Evitò così l’isolamento del suo Paese nella costruzione europea ancora agli inizi.
Tale costruzione è per definizione un’opera collettiva. Per quanto eccezionale sia stato, De Gasperi non è mai stato solo sulla scena europea. Vi ha incontrato altri uomini di buona volontà al potere: anzitutto Robert Schuman e Konrad Adenauer, ma anche il belga Paul-Henri Spaak, il lussemburghese Joseph Bech e l’olandese Willem Beyen. Uomini guidati, al di là delle loro differenze politiche — nonostante un’ampia dominante democristiana —, da una visione condivisa di unire l’Europa al termine della guerra. Uomini capaci di armonizzare diverse identità — regionale, nazionale ed europea — di comprendersi reciprocamente, di fidarsi gli uni degli altri, di riconoscersi come validi interlocutori, di mettersi nei panni dell’altro, di accettare compromessi per il bene comune. Fare l’Europa richiede una stessa generazione di dirigenti politici desiderosi di agire insieme e non di prendersi rivincite, umiliarsi o esistere per sé stessi. Il Consiglio europeo, divenuto la grande istanza di orientamento dei Ventisette, ha bisogno di ritrovare questo spirito pionieristico europeo.
Infine, la lezione più attuale e delicata di questi «padri dell’Europa» è il loro rapporto, al tempo stesso tangibile e ragionato, con l’identità nazionale. De Gasperi e i suoi omologhi hanno sempre difeso l’interesse del proprio Paese, sapendo anche riconoscere la sua appartenenza più vasta a una civiltà comune, a una «famiglia di popoli», come l’ha definita Papa Francesco nel 2014 davanti al parlamento europeo di Strasburgo. L’aggregazione volontaria di nazioni libere e uguali, per quanto ampliata e approfondita sia, non ha mai contemplato la loro cancellazione, ma al contrario il loro sviluppo reciproco attraverso istituzioni sovranazionali.
Come De Gasperi affermò a Strasburgo il 10 dicembre 1951: «L’associazione delle nostre esperienze sociali, culturali, amministrative raddoppia le nostre possibilità nazionali e le preserva da ogni decadenza, dando loro uno slancio nuovo». Uomo delle frontiere come Schuman, De Gasperi vedeva in quelle linee di demarcazione altrettanti punti di contatto. Mentre il nazionalismo ottiene inquietanti e reiterati riscontri elettorali, i «padri dell’Europa» ci insegnano a vedere nell’Unione Europea, al di là di tutte le sue imperfezioni, il punto d’incontro dove i nostri Paesi preparano insieme il loro futuro per garantire il loro posto nel mondo. Un posto collettivo.
di Sébastien Maillard
Consigliere speciale dell’Istituto Jacques Delors a Parigi, già corrispondente di «La Croix» in Vaticano