Hic sunt leones
«Global South» (Sud Globale) è un’espressione ricorrente tra gli analisti di geopolitica internazionale, ai quali spesso vengono riservati ampi spazi non solo sulle riviste specializzate, ma anche nella stampa mainstream (altra espressione inglese, per inciso, entrata in uso per riferirsi collettivamente ai vari grandi mezzi di informazione di massa che influenzano molte persone e ri
flettono e modellano le correnti di pensiero prevalenti). Di «Global South» su questo giornale e in particolare nella nostra rubrica già in passato abbiamo avuto modo di parlarne. Ma è evidente che più passa il tempo e più si avverte l’esigenza di definirne maggiormente i contorni, non foss’altro perché l’attuale congiuntura internazionale esige una maggiore comprensione di quello che sta avvenendo nel cosiddetto mondo globalizzato.
A formulare per primo questa espressione fu Carl Oglesby, scrittore, accademico e attivista statunitense, che parlò di «Global South», nel 1969, sulla rivista Commonweal — il più antico giornale di opinione cattolico negli Usa — in un numero speciale dedicato alla guerra del Vietnam. Oglesby sosteneva che secoli di «dominio del Nord sul Sud Globale» avevano prodotto «un intollerabile ordine sociale» su scala planetaria. Sta di fatto che il termine acquisì popolarità durante la seconda metà del XX secolo e subì un’accelerazione all’inizio di questo secolo. Stando ad una ricerca realizzata da vari autori dell’Università Humboldt di Berlino dal titolo “The Use of the Concept Global South in Social Science & Humanities”, il termine «apparve in almeno due dozzine di pubblicazioni fino al 2004, e in centinaia di pubblicazioni da quell’anno fino al 2013. Da allora, è stato utilizzato frequentemente al punto tale da sostituire, nel lessico comune, quello di «Sud del Mondo».
Ma, concretamente, qual è oggi il significato che può essere attribuito a «Global South» e quali Paesi include? Diciamo subito che essendo un’entità in evoluzione, ne fanno parte non solo i Paesi svantaggiati o a medio e basso reddito, comunque con una demografia in crescita costante come quelli africani, ma anche alcuni fra i più ricchi e scarsamente popolati. Ma attenzione, non siamo ancora di fronte ad una riproposizione del cartello dei “Paesi non allineati” come ai tempi della guerra fredda perché il collante del «Global South» non sembra avere, almeno per ora, una valenza politica e ideologica ben delineata.
Nemmeno l’aggregato dei Brics — che dal gennaio scorso include, oltre a Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa, anche Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita — ne chiarisce il posizionamento. Anche perché gran parte di loro ha obiettivi politici ed economici non sempre convergenti con i promotori dei Brics, vale a dire Cina e Russia. Emblematico è il caso dell’Egitto, che non solo intrattiene proficue relazioni con il governo di Washington, ma è anche il principale beneficiario dell’aiuto militare statunitense, dopo Ucraina e Israele. In base a ciò, l’opinione prevalente tra gli analisti occidentali è che il termine in quanto tale troppo sia vago e contraddittorio per attribuirgli un valore analitico. Molti di loro si domandano, ad esempio, cosa abbiano in comune Nigeria e Nicaragua o Malawi e Malesia.
A questo proposito è interessante il giudizio di Ronak Gopaldas, esperto di economia politica e direttore del “Signal Risk”, una società di consulenza sudafricana per la gestione della sicurezza: «Il valore del termine Global South è radicato in alcuni fattori. Principalmente un malcontento per lo status quo del dominio occidentale e una spinta per un’architettura finanziaria e politica globale più equa, che rifletta le realtà globali esistenti. Nel contesto attuale funge dunque da punto di raccolta per il malcontento, intercettando al contempo le reali condizioni economiche del consesso delle nazioni e le disuguaglianze storiche». Da rilevare, sempre stando al direttore di Signal Risk, che i Paesi del Global South «non trovano offensivo questo termine; si identificano con esso. È molto meno problematico di “terzo mondo” e meno paternalistico di “mondo in via di sviluppo”».
E in assenza di un’alternativa più convincente, è un’espressione abbreviata che funziona. Come dice il ministro degli Esteri indiano, Subrahmanyam Jaishankar: «Se sei del Sud del mondo, lo sai, punto e basta». Significativa è la definizione di «Global South» dello stesso Jaishankar: «Una specie di confraternita, della quale nessuno vuole essere il leader perché nessuno vuole averne uno», come rispose in merito alla questione qualche mese fa a Ugo Tramballi, senior advisor dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), responsabile dell’India desk del medesimo istituto.
In effetti, è difficile essere più circostanziati quando si parla di un fronte che partendo dal Brasile, attraversa una buona parte dell’Africa, del Golfo Persico, dell’Asia meridionale, spingendosi addirittura fino al Pacifico. Ma poiché questa rubrica del nostro giornale non può fare a meno di soffermarsi sulla questione africana, occorre tenere ben presente che proprio l’Africa potrebbe in un futuro non lontano affermare, attraverso la sua partecipazione al «Global South», quelle istanze di riscatto rispetto all’onta del passato coloniale e del presente, anch’esso coloniale, ma in versione riveduta e “scorretta”, perché biasimevole.
L’Africa d’altronde ha ragioni da vendere a partire dalla questione dei cambiamenti climatici, come anche nel caso del contrasto alla povertà. Se da una parte è vero che durante la pandemia Covid-19 questo continente ha espresso una resilienza inaspettata, dall’altra i governi africani non dimenticano il fatto d’essere stati trascurati, se non addirittura dimenticati da quei grandi player internazionali che producevano vaccini. Il sentimento antioccidentale che è lievitato in questi anni in vasti settori dell’Africa occidentale, di quella orientale e australe sono sintomatici di un malessere che le cancellerie del g 7 non dovrebbero sottovalutare.
Secondo Tramballi, «Questo aiuta anche a spiegare le 35 astensioni nei due voti all’Assemblea generale Onu sulla condanna dell’aggressione russa all’Ucraina: 17 di questi (più due contrari) erano africani». Il mondo è oggi estremamente più complesso di quanto lo fosse durante la guerra fredda, quando l’Africa era sotto l’influsso dei due opposti blocchi. Oggi lo scenario è parcellizzato in aree d’influenza straniere all’interno degli stessi Stati sovrani e i condizionamenti sono tali per cui si avverte l’esigenza di tracciare un nuovo corso tutto africano. Quanto è avvenuto quest’anno in Senegal durante le presidenziali, come anche la rivolta dei giovani in Kenya, sono segni emblematici di una precisa volontà popolare. Si tratta di questioni che hanno a che fare non solo con la sicurezza alimentare e in termini economici il carovita, ma anche con la gestione delle risorse e dunque il landgrabbing (accaparramento delle terre da parte di imprese straniere); per non parlare del global warming, il riscaldamento globale.
L’esigenza, dunque, è quella di riformare l’intero sistema delle relazioni internazionali attraverso una multipolarità a cui, soprattutto l’Occidente, non sembra essere culturalmente avvezzo, particolarmente nell’ambito finanziario. Come ha pertinentemente dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres: «L’architettura finanziaria internazionale è miope, incline alle crisi e non ha alcuna relazione con la realtà economica odierna». Lo scorso anno, in occasione del New global financial pact summit a Parigi, il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha ribadito non solo la necessità di una riforma del Fondo monetario internazionale (Fmi), ma ha anche sottolineato che «l’Africa non dovrebbe essere vista come un continente che ha bisogno di generosità, vogliamo essere trattati alla pari e non come mendicanti». Non dimentichiamo, poi, che nel 2050 l’Africa avrà una popolazione di 2 miliardi e 500 milioni di abitanti, mentre l’Europa rappresenterà meno del 5 per cento di quella mondiale. Non è dunque da escludere che prima o poi sarà il «Global South» a dettare le regole del gioco, se non altro perché della straordinaria ricchezza di quelle terre potrebbero finalmente voler beneficiare soprattutto i loro popoli.
di Giulio Albanese