Spezzando il pane
Conversazione con Eraldo Affinati
romanziere prestato all’educazione
Il 4 agosto scorso è stata pubblicata la lettera di Papa Francesco sul ruolo della letteratura nella formazione. Una lunga riflessione, in un primo tempo destinata ai sacerdoti e ai seminaristi come invito a riscoprire il valore dei testi narrativi e poetici proprio ai fini di diventare pastori ed educatori più maturi e preparati. Di questo testo, lungo, denso, ricco di stimoli e spunti interessanti parliamo con Eraldo Affinati che nel suo percorso ha intrecciato in modo proficuo e ormai inestricabile le due dimensioni della letteratura e dell’educazione. Romanziere prestato all’educazione, ma è vero anche il contrario, con Affinati proviamo a “spremere” questo abbondante frutto rappresentato dalla lettera del Papa per estrarre tutto il succo nascosto.
Il Papa ha scritto una lettera per il “buon uso” della letteratura, non una disciplina a sé, staccata dalla vita e per i soli addetti ai lavori, scrittori e critici, ma una realtà che ha a che fare con la vita, che nasce dalla vita e lì torna o deve tornare. Da qui il ruolo degli educatori che possono fare questo lavoro di traghettatori, avanti e indietro, tra la letteratura e la vita. Ti ha sorpreso questo gesto del Papa? Oppure avendolo già visto in azione ti è sembrato qualcosa di naturale, che era già dentro questo pontificato?
In Papa Francesco ho sempre sentito che la parola non è mai scissa dalla vita e, viceversa, l’esistenza non può essere solo istinto cieco. È questa anche la mia idea di letteratura: pensiero e azione si legano, sostenendosi a vicenda, nella scrittura, secrezione dell’esperienza. Direi quindi che sì, queste riflessioni corrispondono in pieno allo stile del pontificato bergogliano.
Seguiamo allora il testo del Papa, il quale parte da uno strano punto di partenza: la noia. Dice il Papa «nella noia delle vacanze, nel caldo e nella solitudine di alcuni quartieri deserti, trovare un buon libro da leggere diventa un’oasi». Cosa ti fa pensare questo esordio?
Mi ci riconosco tantissimo. Penso alla mia adolescenza un po’ selvaggia e solitaria, all’ultimo piano di un quartiere umbertino nella capitale italiana, fra Piazza Vittorio e le Ferrovie Laziali: a quindici anni, se non avessi letto I quarantanove racconti di Ernest Hemingway, Memorie del sottosuolo di Fëdor Dostoevskij, Padre Sergio di Lev Tolstoj , L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, per dire i capisaldi, non so che fine avrei fatto. La scuola non mi piaceva, non avevo amici, la famiglia non mi poteva aiutare perché i miei genitori avevano conseguito soltanto la quinta elementare. Però poi quando per la prima volta sono entrato in aula, non più come studente, ma da docente di Lettere, ho riconosciuto nei ragazzi che avevo di fronte la stessa noia e sfiducia che aveva rischiato di bruciare me, quindi intervenendo su di loro è come se avessi sanato una mia ferita interiore.
Il Papa osserva la difficoltà della lettura nel nostro tempo, contrassegnato dalla «onnipresenza dei media, dei social, dei cellulari e di altri dispositivi». Due domande: è vero secondo te che le attuali condizioni, con il dominio della tecnologia, non arricchiscono ma impoveriscono le capacità e l’immaginazione delle persone? È vero che il lettore è creatore quanto l’autore? Puoi darci prova delle affermazioni del Papa, partendo innanzitutto dalla tua esperienza di lettore?
La rivoluzione digitale da una parte offre a tutti noi straordinarie possibilità di esplorazione culturale, un tempo inconcepibili; dall’altra rischia di non farci comprendere la differenza essenziale tra informazione e conoscenza: un conto è cliccare in Rete per trovare in tempo reale le risposte immediate alle nostre domande, un altro conto è comprendere nel profondo una qualsiasi questione. In mezzo passa la verifica delle fonti, l’analisi dei pro e dei contro, la fatica che comporta ogni interpretazione, lo studio e l’analisi, cioè l’esperienza della realtà, non la sua pura e semplice assimilazione. La scuola è chiamata a ripristinare le gerarchie di valore all’interno della grande Rete il cui avvento, mi piace ricordarlo, fu preconizzato dal grande Pierre Teilhard de Chardin quando parlò di «noosfera». Chi deve insegnare oggi a un giovane cosa è importante e cosa invece non lo è, se non un bravo maestro? Quanto all’interazione fra testo e lettore ne sono anch’io convinto. Da adolescente, leggendo Guerra e pace, m’immedesimavo a tal punto nei suoi personaggi da farli diventare interlocutori interiori: mi sono innamorato di Natascia, poi ho capito che la mia donna ideale non sarebbe stata lei, bensì Maria, l’avrei salvata anch’io, come romanticamente fece Nicola Rostov, dalla rivolta dei mugiki nella sua tenuta; all’inizio credevo di essere Andrej, idealista kantiano che, ferito sotto il cielo di Austerliz, sente la presenza divina senza riuscire a farla propria, poi anche qui ho capito che sarei stato più vicino a Pierre, che si sporca le mani nella Mosca incendiata invasa da Napoleone e in fondo diventa cristiano in prigione, parlando con Platon Karataev, il contadino che gli insegna a vivere in modo armonico rispetto ai cicli stagionali.
Il Papa poi rovescia la prospettiva e dice che è un errore considerare la letteratura come non importante, quasi un vezzo intellettuale, qualcosa di in-essenziale. Chesterton distingueva tra la letteratura (un lusso) e la narrativa (una necessità); secondo te in che senso la propensione dell’uomo a esprimersi poeticamente, a raccontare storie e ad ascoltare storie è necessaria, fondamentale, essenziale? Ha a che fare con la bellezza? Con Dio? Forse non c’entra molto, ma mi viene in mente una battuta di Henry Miller che diceva che l’arte non insegna praticamente nulla, a parte il senso della vita. Come stanno le cose secondo te, qual è il “servizio” che può dare la letteratura? Serve a qualcosa?
Io in questo sono dalla parte di Henry Miller: se cerchiamo nell’arte un prontuario della felicità, non lo troveremo di certo. Leggere un romanzo o una poesia ti aiuta a vedere meglio dentro e fuori di te, ma, come scrisse Montale, «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo». Per me la letteratura è il colore stesso della vita. Ho scalato il Monte Ventoso pensando a Petrarca. Sono stato nei bassi napoletani rievocando l’umanità gentilesca di Giambattista Vico. Nei campielli veneziani ho avuto l’impressione di risentire le ciacole dei rusteghi goldoniani. Ho compreso la “social catena” grazie a Leopardi. Pavese mi ha spiegato che ogni guerra è civile. Ho sognato Montevideo con Dino Campana. Ho avuto l’impressione di veleggiare in Indonesia grazie a Joseph Conrad. Quando sono stato in crisi mi ha aiutato l’Innominato di Alessandro Manzoni. Mi considero un foscoliano: credo nella «corrispondenza di amorosi sensi, celeste dote che è negli umani». Per questo vado spesso nei cimiteri, dove ci sono le tombe dei grandi scrittori: nel Bronx a New York, davanti al sepolcro di Melville, a forma di pergamena, ebbi l’impressione di ascoltare il rimbombo dell’Oceano. E poi come dimenticare lo smarrimento di Fabrizio del Dongo a Waterloo nella prima parte della Certosa di Parma? In certi casi Stendhal è più importante dello psicanalista.
Uno dei “servizi” o meglio, degli “effetti” della letteratura è che permette l’esplorazione del proprio abisso, che spesso ci rimane ignoto. Scrive il Papa: «Alla fine, il cuore cerca di più, ed ognuno trova la sua strada nella letteratura. Io ad esempio, amo gli artisti tragici, perché tutti potremmo sentire le loro opere come nostre, come espressione dei nostri propri drammi. Piangendo per la sorte dei personaggi, piangiamo in fondo per noi stessi ed i nostri vuoti, le nostre mancanze, la nostra solitudine. Naturalmente, non vi sto chiedendo di fare le stesse letture che ho fatto io. Ognuno troverà quei libri che parleranno alla propria vita e che diventeranno dei veri compagni di viaggio». Anche tu ami gli artisti tragici? Forse Dostoevskij come il Papa...
È bello ciò che dice il Papa sulla letteratura come strumento per sprofondare negli abissi del cuore umano. E Dostoevskij, certo, è lo scrittore che più di ogni altro riesce a farlo, insegnandoti anche, non dimentichiamolo, a risalire dallo strapiombo in cui sei precipitato. Lasciami dire che I fratelli Karamazov dovrebbe essere una lettura decisiva nella formazione di qualsiasi essere umano, se poi parliamo di futuri sacerdoti, allora sì, davvero, almeno in seminario bisognerebbe affrontarlo. Questo capolavoro ti fa comprendere le misteriose ragioni del male umano e la necessità di travalicarlo: il grido finale di Alioscia, al quale padre Zosima all’inizio del romanzo aveva consigliato di non entrare in convento, bensì di restare in famiglia, dove la sua presenza sarebbe stata di gran lunga più proficua, quando guida il gruppo di ragazzi che sono andati al funerale del loro compagno, è il vertice della poetica dostoevskiana. In quel punto cruciale io trovo la sintesi perfetta fra educazione e letteratura.
E qui c’è una prima criticità che tocca il tema della scuola. Scrive il Papa: «Non c’è niente di più controproducente che leggere qualcosa per obbligo, facendo uno sforzo considerevole solo perché altri hanno detto che è essenziale. No, dobbiamo selezionare le nostre letture con apertura, sorpresa, flessibilità, lasciandoci consigliare, ma anche con sincerità, cercando di trovare ciò di cui abbiamo bisogno in ogni momento della nostra vita». Il Papa non pensa qui alla scuola, però, da professore a professore, ti chiedo: non è forse questo uno dei grandi rischi della scuola? Riuscire a far odiare testi di straordinaria bellezza che vengono imposti come testi di studio? Come uscire da questo vicolo cieco?
Guai a obbligare i ragazzi a leggere! La lettura non dovrebbe mai essere concepita come un compito da eseguire, un precetto da assolvere, un impegno da sbrigare. Il professore è chiamato a incarnare una passione, in modo tale che i ragazzi si sentano spinti a imitarlo. Dobbiamo renderli protagonisti di un’azione in grado di coinvolgerli. So che tu l’hai fatto, quando insegnavi religione al liceo Pilo Albertelli di Roma, organizzando uno spettacolo teatrale coi tuoi studenti a partire da Sunset Boulevard di Cormac Mc Carthy. È quella la strada da seguire. A tale proposito potrei raccontarti molte esperienze di letteratura a scuola. Come dimenticare la lettura integrale dei Promessi Sposi che facevo a Guidonia, vicino a Roma, in un istituto tecnico per il commercio? Creavo un campo delle operazioni per cui ogni capitolo avrebbe dovuto avere almeno dieci interpretazioni, legate ai personaggi reali del romanzo e a quelli nascosti. Tutta la classe partecipava con adesione spontanea. Qualche anno fa uno di questi miei ex allievi mi spedì una mail in cui rammentava un dettaglio che io avevo dimenticato, quando lui scrisse alla lavagna il nome del personaggio nascosto a suo avviso più importante: Dio! C’era di che rallegrarsi, ma a quei tempi, ormai lontani, non avevamo ancora vissuto la rivoluzione digitale. Dopo è cambiato tutto. Noi docenti avremmo dovuto inventarci qualcos’altro per coinvolgere gli scolari. Una volta io, volendo far leggere Se questo è un uomo di Primo Levi agli allievi dell’istituto professionale, me li portai in libreria per acquistare il volume fisicamente insieme a loro. Vennero tutti dietro di me, con i dieci euro in mano a fare la fila alla cassa. Poi uscimmo per strada e ognuno di loro brandiva fiero il testo, la copertina bianca Einaudi, come una spada. Sembra banale, ma questo gesto da solo mi assicurò un grande vantaggio: era come se avessimo acceso un fuoco che ci avrebbe riscaldato per tutto l’anno, perché ogni volta che iniziavamo a leggere il testo ci tornava in mente quel giorno. Oppure ricordo quando spiegavo in classe le poesie di Giuseppe Ungaretti. Gli studenti erano stanchi, non riuscivano a stare attenti. Romoletto alzò la mano e chiese: dov’è sepolto questo poeta? Gli risposi: al cimitero del Verano. E lui disse: perché non ci andiamo? Lo presi in parola. Il giorno dopo partimmo dalla stazione Termini per andare a visitare la tomba. Quando raggiungemmo il sepolcro quegli stessi ragazzi di borgata che di solito non riuscivano a concentrarsi per più di un minuto, sembravano essersi trasformati in studenti oxfordiani. Mentre recitavo quasi a memoria le prime strofe della poesia I fiumi avevano lo sguardo fisso su di me. Non sentivi ronzare una mosca. Alcuni toccavano il tumulo come se fosse quello di un parente. D’improvviso Ungaretti era diventato uno di noi.
C’è un paragrafo della lettera dedicato proprio al tema della “carne”. Il Papa si riferisce alla carne di Cristo e suggerisce l’esperienza della letteratura come occasione per ampliare la sensibilità in modo da vivere la fede nel modo più concreto possibile, meno astratto e più “incarnato”. Da questo punto di vista la lettura non può sanare quel deficit di concretezza del mondo contemporaneo tutto avviluppato nella virtualità che fugge la materia e si butta in un cieco distacco dalla fisicità (a cui fa da sponda opposta l’esaltazione della forma fisica e del “salutismo”)? Un buon romanzo, questo tuffo nella realtà e nei suoi cinque sensi, può essere un sano antidoto all’approccio ideologico e/o idolatrico che sempre insidia la mente e il cuore dell’uomo?
Su questo punto mi è stata molto utile la riflessione del Papa a partire da san Paolo, in cui ho sempre ritrovato la fonte più antica, se non volessimo risalire direttamente al Nazareno, dell’educatore: uno che peraltro non scriverebbe mai se non avesse un interlocutore diretto al quale rivolgersi. Paolo, per come lo intendo io, è il modello ideale sia come scrittore, sia in quanto educatore. Uomo di fede, movimento e avventura, consapevole della fragilità insita negli individui della nostra specie, eppure in grado di accendere gli animi degli spiriti, non soltanto quelli eletti. Dovremmo riuscire a raccontarlo meglio alle giovani generazioni, fuori dai santini edificanti. Dico una cosa ovvia ma fondamentale: se non ci fosse stato lui, la cultura occidentale non sarebbe ciò che è. Il modo in cui evoca la carità, ad esempio, è una delle cellule germinali della letteratura russa. La parola profonda tende all’integralità dell’esperienza umana, non può essere soltanto il frutto di un gioco di polso, altrimenti sarebbe sterile. In tale chiave la letteratura si lega allo “straniamento” di cui parlava Viktor Šklovskij: il vero scrittore ti mostra la realtà come se tu la vedessi per la prima volta, mentre magari ce l’hai sempre avuta di fronte e non l’ha mai considerata.
Collegata a questa domanda c’è la riflessione che il Papa sviluppa a partire da una frase di Eliot sulla incapacità emotiva dell’uomo contemporaneo. «Oggi il problema della fede» dice il Papa, «non è innanzitutto quello di credere di più o di credere di meno nelle proposizioni dottrinali. È piuttosto quello legato all’incapacità di tanti di emozionarsi davanti a Dio, davanti alla sua creazione, davanti agli altri esseri umani. C’è qui, dunque, il compito di guarire e di arricchire la nostra sensibilità». Nella tua esperienza trovi anche tu questa “freddezza” nelle giovani generazioni? Oppure no?
Credo che i giovani siano ancora oggi, come sempre, una fiamma viva, pronta a farti luce ma anche a scottarti e magari esplodere davanti a te. Bisogna saperli intercettare. Essere amici e maestri nel medesimo tempo: condividere i loro entusiasmi e passioni, ma saper incarnare anche i limiti che essi devono rispettare, senza aver paura di perdere il loro consenso, proprio come dovrebbero fare i genitori. C’è un problema di linguaggio, questo sì, che va rinnovato, e torna dunque la letteratura come creatrice di “voci”, secondo l’espressione presente nella lettera che stiamo analizzando, in risonanza con Jorge Louis Borges che, come sappiamo, il Papa conobbe personalmente quando lo invitò a parlare ai suoi studenti a Santa Fe. Più che i commenti, sosteneva il grande scrittore argentino, pure necessari, dobbiamo insegnare a leggere i testi, scoprendo le voci degli scrittori. Ho fatto per tanti anni il commissario esterno negli esami di maturità e ogni volta non riuscivo a trattenere il mio sgomento di fronte a molti candidati ai quali, invece di far leggere i versi di una poesia o i brani di un romanzo, era stata presentata la parafrasi. Recitavano le mappe concettuali, senza conoscere le fonti. È questa una responsabilità culturale, anche universitaria: a cosa ti serve ripetere a memoria la poetica del “fanciullino”, se non hai mai letto un verso di Giovanni Pascoli? Puoi limitarti a raccontare la trama dei Promessi Sposi senza averlo analizzato integralmente e “ruminato” nel profondo, secondo un’altra espressione citata dal Papa, nel solco di Michel De Certeau? Restiamo nel Novecento italiano. Basta un racconto di Silvio D’Arzo, o Federico Tozzi o Giorgio Bassani o Vasco Pratolini o Ignazio Silone per ascoltare voci uniche e irriducibili. Dovremmo insegnare ai nostri ragazzi a riconoscerle, prima di nominare gli autori, come si fa in geografia con la cartina muta, quando si invita lo scolaro a indicare la città sulla mappa. Perché la voce in letteratura è tutto.
Mi viene da chiederti: può essere la lettura un momento per ascoltare la nostra voce? Il Papa parla di una “palestra di discernimento”. È così?
Certo. Nel momento in cui ascolto la voce di qualcun altro, scopro anche la mia. Apro Una questione privata e leggo: «Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo petto». La voce di Beppe Fenoglio è già tutta qui, nel suo Milton, stupefatto di fronte alla villa di Fulvia, pura e cristallina, lirica e narrativa insieme. Ci sono le Langhe, fango e nebbia nelle cascine dove sulla paglia riposano i partigiani, c’è l’Italia perduta nel fascismo alleato coi nazisti e l’Italia da ritrovare nel sogno democratico che i padri costituenti hanno realizzato. Leggi in classe I Malavoglia, libro difficile da rubricare anche per noi italiani, una delle più grandi macchine liriche della letteratura italiana, incapsulato dentro il manuale del verismo, eppure universale perché da tutti potenzialmente apprezzabile. Io lo presentavo ai ragazzi afghani e mi stupivo nel verificare come loro, pur non potendolo comprendere sino in fondo, lo gradissero. Anzi di più: lo amassero. Allora, quasi incredulo, chiedevo: dimmi, Hafiz, come mai ti piacciono così tanto queste avventure di una povera sfortunata famiglia di pescatori siciliana? E lui, serissimo, mi rispondeva così: ma lo sai, professore, che i proverbi del vecchio ‘Ntoni sono uguali a quelli che mi declamava mio nonno alla periferia di Kabul?
La letteratura: gesto libero e gratuito. Proprio perché non “serve” a nulla la letteratura si rivela essenziale. Perché sfugge alla catena mezzo-fine, la logica dell’efficienza che riduce tutto all’utile. Nella frenesia dell’attuale mondo occidentale la lettura consente, anzi ci obbliga, scrive il Papa «a rallentare, a contemplare e ad ascoltare. Questo può accadere quando una persona si ferma gratuitamente a leggere un libro». La letteratura è tutt’uno con la libertà dell’uomo?
Dovrebbe esserlo. A patto di considerare la libertà come la intendeva Dietrich Bonhoeffer, non quale superamento dei limiti, bensì come loro accettazione. Si diventa adulti imboccando una strada piuttosto che un’altra. Scegliere significa rinunciare, tagliare e potare dentro il nostro albero interiore, non soltanto i rami secchi, che sarebbero caduti da soli, ma anche quelli fioriti, cioè le cose belle che potevamo realizzare, desideri, passioni, attitudini, aspirazioni, ma abbiamo deciso di non fare in nome di qualcos’altro in cui crediamo di più. Qui la letteratura ci può aiutare. Noi italiani, in particolare, che abbiamo la fortuna di poter leggere la Divina Commedia nella lingua originale in cui venne composta, potremmo affrontare quel capolavoro anche come straordinario repertorio di caratteri umani coi quali confrontarci: nel rispecchiamento, nella presa di distanza, nella riflessione sul male e sul bene. Nel mio piccolo percorso personale, ad esempio, l’enunciazione lirica della fede quale «sustanza di cose sperate», nella rievocazione della Lettera agli Ebrei di Paolo, compresa nel canto xxiv del Paradiso, è stata importante. Mi ha spinto a riflettere sulla necessità di prendere posizione, con un gesto di volizione individuale, nei confronti della vita. Certo non si può fare da soli. È necessario condividere con gli altri il proprio convincimento. «Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo», scrisse don Lorenzo Milani. Vale a dire che la letteratura non te la devi tenere per te, degustandola quasi fosse un cibo speciale con altri quattro gatti, specialisti eruditi amici tuoi. Al contrario, dobbiamo spezzare il pane dell’istruzione. Aperta parentesi: ma se il cristianesimo non è questo, cos’altro dovrebbe essere? Ecco, se noi riuscissimo a spiegare tutto ciò a un quindicenne, potremmo cambiargli la vita in meglio. La scuola diventerebbe, come dico spesso, l’intensificazione dell’esistenza, non un luogo separato e distante dal mondo. Però per farlo non dovremmo limitarci ad assegnare i compiti e mettere il voto. Quando leggevamo tutti insieme Il richiamo della foresta di Jack London, non ci sembrava di stare in aula, avevamo l’impressione di partire per l’Alaska.
La letteratura non è solo espressione della libertà, ma anche della responsabilità dell’uomo. Il Papa in questo senso parla dell’empatia, che la letteratura fa sviluppare in modo potente. Vedendo il mondo con gli occhi degli altri, questo è ciò che permette la lettura di un libro, si acquisisce, scrive il Papa, «un’ampiezza di prospettiva che allarga la nostra umanità. Si attiva così in noi il potere empatico dell’immaginazione, che è veicolo fondamentale per quella capacità di identificazione con il punto di vista, la condizione, il sentire altrui, senza la quale non si dà solidarietà, condivisione, compassione, misericordia. Leggendo scopriamo che ciò che sentiamo non è soltanto nostro, è universale, e così anche la persona più abbandonata non si sente sola». Questa responsabilità che l’uomo prova nei confronti dell’altro e del mondo, può essere via di riscatto? C’è una salvezza nascosta in qualche modo tra le pagine dei romanzi?
Io dico di sì. E ti racconto un episodio per dimostrarlo. Come sai, ho conosciuto molto bene, anche personalmente, Mario Rigoni Stern. Una volta alla Città dei Ragazzi, la comunità educativa alle porte di Roma fondata da monsignor Carroll-Abbing, dove sono stato insegnante di Lettere nella succursale dell’istituto professionale Carlo Cattaneo presente al suo interno, feci leggere Il sergente nella neve, la storia dell’amara e sfortunata ritirata di Russia dei nostri alpini durante la Seconda guerra mondiale. I ragazzi, solitamente svogliati e disattenti, non si perdevano una riga, alternandosi alla lettura a voce alta, anche se loro avrebbero voluto che leggessi sempre io, ma era dura, spesso tornavo a casa con la raucedine. Un giorno venni a sapere che fra i miei scolari c’erano due nipoti di soldati che avevano combattuto la guerra di cui narrava Rigoni Stern su fronti avversi: uno era abruzzese, col nonno alpino italiano; l’altro moldavo, col nonno che aveva militato nell’Armata Rossa. Chissà, magari i due nemici si erano sparati contro. Fu una scoperta eccezionale anche perché i ragazzi ricordavano i racconti dei nonni quando erano bambini. Allora non mi lasciai sfuggire l’occasione, chiesi a entrambi di alzarsi in piedi ed abbracciarsi in segno di pace. Lo fecero con grande senso spettacolare, come usa a quell’età, e l’intera classe tributò a entrambi un applauso fragoroso, al punto che la bidella, sorpresa, si affacciò per capire cosa stesse accadendo. In quel momento la letteratura, come scrive il Papa nella sua missiva, era diventata carne viva.
di Andrea Monda