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Hic sunt leones

Il nuovo corso sino-africano

Senegal's Foreign Minister Yassine Fall, China's Foreign Minister Wang Yi and Republic of the ...
13 settembre 2024

La Cina considera sempre di più l’Africa un continente strategico nel contesto geopolitico internazionale. È risultato evidente dalla conferenza stampa del Ministro degli Esteri cinese Wang Yi a conclusione del Nono Forum sulla Cooperazione Cina-Africa (Focac), svoltosi a Pechino dal 4 al 6 settembre scorsi. Il summit «è stato un completo successo», ha detto Wang, sottolineando che le relazioni politico-diplomatiche sono di fatto tali da aver generato una vera e propria «comunità Cina-Africa» per avviare una nuova era di progresso e sviluppo nella cooperazione economica e industriale, in campo commerciale e in termini generali sul versante geopolitico.

Per gli osservatori più attenti non è affatto una sorpresa poiché Pechino ha sempre considerato l’Africa come hub strategico all’interno della Nuova Via della Seta, meglio nota con gli acronimi OBOR (One Belt One Road) e BRI (Belt and Road Initiative), ma è anche evidente, stando sempre a Wang, che l’attuale congiuntura internazionale impone di «unire le forze per promuovere la modernizzazione» realizzando una comunità sino-africana «di alto livello con un futuro condiviso» capace di contrastare il «crescente egemonismo e la mentalità da Guerra fredda».

Al vertice di Pechino hanno preso parte 53 delegazioni dei Paesi africani su 54 del continente (eSwatini, meglio conosciuta come Swaziland, non era presente perché mantiene i rapporti con Taiwan) composte dai rispettivi presidenti, capi di governo e ministri, oltre al presidente della commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat.

Nella conferenza stampa svoltasi il 5 settembre, Wang ha delineato il piano d’azione Cina-Africa, fortemente voluto dal presidente Xi Jinping che prevede, tra l’altro, investimenti e aiuti finanziari per 50 miliardi di dollari in tre anni in tutti i settori economici del continente, a partire dai grandi collegamenti infrastrutturali nei trasporti. Si tratta di una cifra di denaro significativa che si aggiunge a quella già dichiarata nel meeting ministeriale FOCAC di Dakar nel 2021 che includeva 10 miliardi di dollari di crediti, 10 miliardi di finanziamenti al commercio, 10 miliardi di investimenti da parte delle industrie cinesi e il trasferimento di 10 miliardi di diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Questo indirizzo geostrategico è visto ancora oggi con un certo sospetto dai governi occidentali, soprattutto in riferimento al meccanismo di creazione di crescenti livelli di dipendenza dei Paesi africani coinvolti nel partenariato, per via della loro incapacità a ripagare i debiti contratti per la realizzazione delle infrastrutture, la cosiddetta «trappola del debito». Queste accuse sono state comunque ridimensionate dalla China-Africa Research Initiative della John Hopkins University e dal Global Development Policy Center della Boston University. In effetti, su 17 paesi oggetto di analisi, classificati dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) come vulnerabili, solo per tre di loro – vale a dire Gibuti, Repubblica Democratica del Congo e Zambia – i prestiti cinesi ammontano alla metà o più del debito pubblico.

La posta in gioco è alta se si considera che il volume commerciale annuale sino-africano, secondo le previsioni formulate dal Ministero degli Esteri cinese, potrebbe addirittura raggiungere i 300 miliardi di dollari entro il 2035. Al momento, la bilancia commerciale tra la Cina e l’Africa è di circa 283 miliardi di dollari, 100 dei quali costituiscono l’export di merci africane verso la Cina. Il commercio totale, dunque, favorisce comprensibilmente la Cina che in questi anni ha comunque sviluppato una fitta rete di rapporti a livello bilaterale con i singoli governi africani. Rimane però il fatto che quasi un quarto delle esportazioni africane è destinato alla Cina, per lo più minerali, fonti energetiche in primis, mentre circa il 16 per cento delle importazioni proviene dall’Impero del Drago.

Molti governi africani, pur riconoscendo e apprezzando gli investimenti cinesi in Africa che hanno consentito realizzazione di importanti infrastrutture come strade, ferrovie, porti, reti energetiche, chiedono di bilanciare il commercio aumentando l’export africano. Lo ha dichiarato per esempio il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa sottolineando l’ambizione del suo esecutivo nelle relazioni commerciali con Pechino: «Vorremmo ridurre il deficit e modificare la struttura dei nostri scambi commerciali». Infatti, per quanto l’ottimismo abbia ampiamente aleggiato sui lavori del vertice di Pechino, l’attuale congiuntura internazionale, sia per quanto concerne l’economia reale, come quella finanziaria, crea turbolenze dalle quali non è facile difendersi. L’anno scorso, ad esempio, il valore del commercio globale totale della Cina è sceso del 5 per cento rispetto all’anno precedente, attestandosi a 5,93 trilioni di dollari. Motivo per cui si è registrata comunque una diminuzione degli scambi.

Secondo i dati doganali cinesi, nel 2023 la bilancia commerciale con i cinque principali partner commerciali della Cina in Africa – Sudafrica, Angola, Nigeria, Repubblica democratica del Congo ed Egitto – ha subito una contrazione. Su scala continentale, il deficit commerciale dell’Africa è salito nel 2023 a 64 miliardi di dollari (46,9 nel 2022), poiché la Cina ha registrato un calo nelle importazioni pari a circa il 7 per cento attestandosi a 109 miliardi di dollari. Mentre ha esportato beni per 173 miliardi di dollari.

Da questo punto di vista, il summit di Pechino rappresenta una risposta concreta alle sfide che il gigante asiatico intende affrontare partendo dal presupposto che da ogni crisi possono scaturire grandi opportunità. Paolo Raimondi, attento osservatore in questi anni delle politiche economiche dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa, ai quali quest’anno si sono aggiunti Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) ritiene che «Un’analisi attenta dei due documenti più importanti del Focac, la Dichiarazione di Beijing e l’Action Plan (2025-27), adottati all’unanimità, aiuta a comprendere il tipo di rapporto e di iniziative che si svilupperanno nel prossimo futuro». La nota più importante, secondo Raimondi, è data dal fatto che «la Cina e i Paesi dell’Africa hanno già creato un’attiva e capillare rete di organismi e piattaforme per tutti i settori di cooperazione, dall’agricoltura all’intelligenza artificiale. Una rete operativa che dispone di esperti, di regolamenti, di incontri e di progetti. Qualcosa che non esiste tra gli Stati Uniti e l’Africa, e questo non sorprende, ma che non esiste nemmeno tra l’Europa e il continente africano poiché una genuina azione unitaria europea è sempre minata da interessi ed egoismi tipici del vecchio colonialismo».

Un dato molto importante concordato a Pechino, peraltro in linea con l’indirizzo impresso dai Brics, è la volontà della Cina e dei Paesi africani di estendere l’uso di due piattaforme di pagamenti internazionali, alternative allo Swift controllato dagli Stati Uniti: la Pan-African Payment and Settlement System e la Cross-border Interbank Payment System (Cips) della Cina, con l’intento dichiarato di promuovere un uso crescente della moneta cinese nelle transazioni finanziarie in Africa. Si intende, al contempo, favorire l’uso delle divise locali africane nei commerci con la Cina e in quelli interni al continente africano.

Una cosa è certa: la grande attenzione posta dalla Cina all’Africa è stata evidenziata nel summit dalla volontà del governo di Pechino di dichiararsi parte integrante del Global South (Sud Globale) e membro a pieno titolo del cartello dei Paesi in via di sviluppo. Se da una parte è palese la differenza tra il Pil cinese che ammonta a circa 18 trilioni di dollari e quello dell’intero continente africano che è di circa 3 trilioni e 200 miliardi di dollari, dall’altro la Cina si fa portavoce degli interessi del Global South, Africa inclusa, a partire dalle agenzie multilaterali, come il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), la Banca Mondiale (Bm), l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), e anche nelle Nazioni Unite. A questo punto restano sullo sfondo le criticità del disordine mondiale generato dalla crisi russo-ucraina, quella mediorientale per non parlare del problema del jihadismo africano che tanto preoccupa le cancellerie di mezzo mondo.

di Giulio Albanese