Una storia di eroismo,
Sono tanti i sacerdoti, i consacrati, i missionari, i catechisti che hanno lasciato un segno nella storia di Timor Leste. Persone che hanno consegnato una testimonianza di vita evangelica che ha un riverbero nel presente. E sono tanti i giovani che, ispirati dalle loro azioni, ancora oggi scelgono di donare la vita a Cristo e al prossimo. Timor Leste è terra fiorente di vocazioni: basta vedere i 300 giovani che celebrano con profonda partecipazione l’Eucarestia nel Seminario maggiore a Díli, e gli altri 300 che studiano nel minore. Questo avviene perché durante gli anni bui dell’oppressione, nel tempo dell’occupazione indonesiana (1975-1999), furono proprio «i preti, le suore, i catechisti a vivere accanto alle povera gente, nella sofferenza e nella prova, portando consolazione e il conforto della fede, donando la presenza di Gesù che attraversava il deserto con tutti loro» ha ricordato all’agenzia Fides il cardinale Virgílio do Carmo da Silva, arcivescovo di Díli.
Come lui, tanti esponenti del clero hanno vissuto, da giovani o da ragazzi, il tempo della resistenza e hanno goduto dell’esempio di «uomini e donne di Dio», dediti al servizio al prossimo, autentici “buon samaritani” del Vangelo nel momento dell’oppressione e dell’indigenza.
Alcuni, nel frangente più cruento della guerra, sono stati vittime delle milizie indonesiane, scrivendo «una meravigliosa storia di eroismo, di fede, di martirio» come ha detto il Papa stamani, 11 settembre, ai giovani del Paese. Basta ricordare i preti timoresi uccisi in quel frangente, come Tarcisius Dewanto, Hilario Madeira, Francisco Soares, Francisco Barreto, o altri missionari che hanno scelto di restare accanto al popolo, come il gesuita tedesco Karl Albrecht e le suore canossiane Erminia Cazzaniga, italiana, e Celeste de Carvalho Pinto, assassinati dalle bande armate insieme con due seminaristi e un gruppo di volontari.
È rimasta nel cuore del popolo la figura di don Alberto Ricardo da Silva (1943-2015) che poi, nel 2004, fu nominato vescovo di Díli. Al tempo della lotta di resistenza, cercò di proteggere molti giovani, ospitandoli nella sua parrocchia di Sant’Antonio a Motael. Era lui il parroco durante il noto “massacro di Santa Cruz” del novembre 1991, quando l’esercito indonesiano aprì il fuoco sulla folla di giovani manifestanti, davanti al cimitero. Qual massacro di 200 ragazzi portò la vicenda di Timor Leste alla ribalta delle cronache internazionali e quel sacrificio servì a preparare la stagione del referendum che nel 1999 proclamò l’indipendenza.
Don Alberto, ricordano oggi i fedeli, «aveva a cuore la giustizia e la pace, cercava sempre di curare la vita del suo gregge, soprattutto dei giovani». Molti esponenti della Chiesa timorese denunciarono l’ingiustizia e si pronunciarono apertamente per la libertà, come Carlos Felipe Ximenes Belo, il vescovo salesiano che nel 1996 fu insignito del premio Nobel per la pace (successivamente accusato di violenze anche su minori).
Non si può dimenticare don Martinho da Costa Lopes (1918-1991), nel 1977 vicario apostolico di Díli, che nella storia della resistenza ebbe un ruolo cruciale: incontrando l’allora astro nascente del movimento di resistenza, il leader Xanana Gusmão (oggi primo ministro), don Martino gli disse profeticamente che, per avere successo, il movimento indipendentista avrebbe dovuto abbandonare l’ideologia marxista. Quella voce echeggiò nel cuore di Gusmão, che volle ascoltarla: così nel 1988 il movimento presentò un documento politico in cui si sanciva la rinuncia esplicita a quella ideologia. L’unico riferimento ideale, in quella lotta non violenta, restò il Vangelo e questa scelta di campo ebbe un notevole impatto per il prosieguo della storia del Paese, con effetti tuttora visibili.
di Paolo Affatato