Il 45° viaggio apostolico di Papa Francesco - Papua Nuova Guinea
Testimoni di coraggio
Papa Francesco ha concluso la giornata di sabato 7 settembre incontrando i presuli della Conferenza episcopale della Papua Nuova Guinea e delle Isole Salomone (Cbcpngsi), i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, le religiose, i seminaristi e i catechisti presso il santuario di Maria Ausiliatrice a Port Moresby. Proveniente in automobile dalla vicina «Caritas Technical Secondary School», il Pontefice ha raggiunto l’edificio di culto mariano costruito sulla proprietà salesiana che ospita anche il «Don Bosco Technological Institute» a East Boroko, sobborgo della capitale. Dopo il saluto rivoltogli dal vescovo presidente della Cbcpngsi e le testimonianze di un prete, di una suora e di rappresentanti dei catechisti e del Sinodo sulla sinodalità, Francesco ha pronunciato il discorso che pubblichiamo di seguito.
Cari fratelli e sorelle, buonasera!
Vi saluto tutti con affetto: vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, seminaristi e catechisti. Ringrazio il Presidente della Conferenza Episcopale per le sue parole, come pure James, Grace, Suor Lorena e don Emmanuel per le loro testimonianze.
Sono contento di stare qui, in questa bella chiesa salesiana: i salesiani sanno fare bene le cose. Complimenti. Questo è un Santuario diocesano dedicato a Maria Aiuto dei Cristiani: Maria Ausiliatrice — io sono stato battezzato nella parrocchia di Maria Ausiliatrice a Buenos Aires — un titolo tanto caro a San Giovanni Bosco; Maria Helpim, come con affetto la invocate qui. Quando, nel 1844, la Madonna ispirò a don Bosco di costruire a Torino una chiesa in suo onore, gli fece questa promessa: “Qui è la mia casa, da qui la mia gloria”. Maria gli promise che, se avesse avuto il coraggio di cominciare la costruzione di quel Santuario, grandi grazie ne sarebbero seguite. E così è successo: la chiesa è stata costruita, ed è meravigliosa — ma è più bella quella di Buenos Aires! — ed è diventata centro di irradiazione del Vangelo, di formazione dei giovani e di carità, è diventata punto di riferimento per tanta gente.
Così il bel Santuario in cui ci troviamo, che si ispira a quella storia, può essere un simbolo anche per noi, particolarmente in riferimento a tre aspetti del nostro cammino cristiano e missionario, come hanno sottolineato le testimonianze che abbiamo ascoltato: il coraggio di cominciare, la bellezza di esserci e la speranza di crescere.
Primo: il coraggio di cominciare. I costruttori di questa chiesa hanno iniziato l’impresa facendo un grande atto di fede, che ha portato i suoi frutti, e che però è stato possibile solo grazie a tanti altri inizi coraggiosi, di chi li ha preceduti. I missionari sono arrivati in questo Paese alla metà del xix secolo e i primi passi del loro lavoro non sono stati facili, anzi alcuni tentativi sono falliti. Ma loro non si sono arresi: con grande fede e con zelo apostolico hanno continuato a predicare il Vangelo e a servire i fratelli, ricominciando molte volte dove non avevano avuto successo, con tanti sacrifici.
Ce lo ricordano queste vetrate — che adesso non si vedono perché è notte —, attraverso le quali la luce del sole ci sorride nei volti dei Santi e Beati: donne e uomini di ogni provenienza, legati alla storia della vostra comunità: Pietro Chanel, protomartire dell’Oceania, Giovanni Mazzucconi e Pietro To Rot, martiri della Nuova Guinea, e poi Teresa di Calcutta, Giovanni Paolo ii , Mary McKillop, Maria Goretti, Laura Vicuña, Zeffirino Namuncurá, Francesco di Sales, Giovanni Bosco, Maria Domenica Mazzarello. Tutti fratelli e sorelle che, in modi e tempi diversi, cominciando e ricominciando tante volte opere e cammini, hanno contribuito a portare il Vangelo tra voi, con una variopinta ricchezza di carismi, animati dallo stesso Spirito e dalla stessa carità di Cristo (cfr. 1 Cor 12, 4-7; 2 Cor 5, 14). È grazie a loro, alle loro “partenze” e “ripartenze” — i missionari sono donne e uomini di “partenza”, e se tornano, di “ripartenza”: questa è la vita del missionario, partire e ripartire —, è grazie a loro che siamo qui e che oggi, nonostante le sfide che pure non mancano, continuiamo ad andare avanti, senza paura — non so se sempre —, sapendo che non siamo soli, che è il Signore che agisce, in noi e con noi (cfr. Gal 2, 20), rendendoci, come loro, strumenti della sua grazia (cfr. 1 Pt 4, 10). Questa è la nostra vocazione: essere strumenti.
E in proposito, anche alla luce di ciò che abbiamo sentito, vorrei raccomandarvi una via importante verso cui dirigere le vostre “partenze”: quella delle periferie di questo Paese. Penso alle persone appartenenti alle fasce più disagiate delle popolazioni urbane, come anche a quelle che vivono nelle zone più remote e abbandonate, dove a volte manca il necessario. E ancora penso a quelle emarginate e ferite, sia moralmente che fisicamente, dal pregiudizio e dalla superstizione, a volte fino a rischio della vita, come ci hanno ricordato James e Suor Lorena. A questi fratelli e sorelle la Chiesa desidera essere particolarmente vicina, perché in loro Gesù è presente in modo speciale (cfr. Mt 25, 31-40), e dove c’è Lui, il nostro capo, ci siamo anche noi, sue membra, appartenenti allo stesso corpo, «ben collegato e ben connesso mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture» (Ef 4, 16). E per favore, non dimenticatevi: vicinanza, vicinanza! Voi sapete che i tre atteggiamenti più belli sono la vicinanza, la compassione e la tenerezza. Se una consacrata o un consacrato, un prete, un vescovo, i diaconi non sono vicini, non sono compassionevoli e non sono teneri, non hanno lo Spirito di Gesù. Non dimenticate questo: vicinanza, compassione, tenerezza.
E questo ci porta al secondo aspetto: la bellezza di esserci. Possiamo vederla simboleggiata nelle conchiglie kina, con cui è ornato il presbiterio di questa chiesa, e che sono segno di prosperità. Esse ci ricordano che qui il tesoro più bello agli occhi del Padre siamo noi, stretti attorno a Gesù, sotto il manto di Maria, spiritualmente uniti a tutti i fratelli e le sorelle che il Signore ci ha affidato e che non possono essere qui, accesi dal desiderio che il mondo intero possa conoscere il Vangelo e condividerne con noi la forza e la luce.
James chiedeva come si fa a trasmettere ai giovani l’entusiasmo della missione. Non penso che ci siano “tecniche” per questo. Un modo collaudato, però, è proprio quello di coltivare e condividere con loro la nostra gioia di essere Chiesa (cfr. Benedetto xvi , Omelia nella Messa di Inaugurazione della v Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida, 13 maggio 2007) casa accogliente fatta di pietre vive, scelte e preziose, poste dal Signore le une accanto alle altre e cementate dal suo amore (cfr. 1 Pt 2, 4-5). Così, come ci ha ricordato Grace, richiamando l’esperienza del Sinodo, stimandoci e rispettandoci a vicenda e mettendoci al servizio gli uni degli altri, possiamo mostrare a loro e a chiunque ci incontri quanto è bello seguire insieme Gesù e annunciare il suo Vangelo.
La bellezza di esserci, allora, non si sperimenta tanto in occasione dei grandi eventi e nei momenti di successo, quanto piuttosto nella fedeltà e nell’amore con cui ogni giorno ci si impegna a crescere insieme.
E così giungiamo al terzo e ultimo aspetto: la speranza di crescere. In questa Chiesa c’è un’interessante “catechesi in immagini” del passaggio del Mar Rosso, con le figure di Abramo, Isacco e Mosè: i Patriarchi resi fecondi dalla fede, che per aver creduto hanno ricevuto in dono una numerosa discendenza (cfr. Gen 15, 5; 26, 3-5; Es 32, 7-14). E questo è un segno importante, perché incoraggia anche noi, oggi, ad avere fiducia nella fecondità del nostro apostolato, continuando a gettare piccoli semi di bene nei solchi del mondo. Sembrano minuscoli, come un granello di senape, ma se ci fidiamo e non smettiamo di spargerli, per grazia di Dio germoglieranno, daranno un raccolto abbondante (cfr. Mt 13, 3-9) e produrranno alberi capaci di accogliere gli uccelli del cielo (cfr. Mc 4, 30-32). Lo dice San Paolo, quando ci ricorda che la crescita di ciò che noi seminiamo non è opera nostra, ma del Signore (cfr. 1Cor 3, 7), e lo insegna la Madre Chiesa, quando sottolinea che, pur attraverso i nostri sforzi, è Dio «a far sì che venga il suo regno sulla terra» ( Conc. Ecum. Vat. ii, Decr. Ad gentes, 42). Perciò noi continuiamo ad evangelizzare, pazientemente, senza lasciarci scoraggiare da difficoltà e incomprensioni, nemmeno quando queste si presentano là dove meno vorremmo incontrarle: in famiglia, ad esempio, come abbiamo sentito.
Cari fratelli e sorelle, ringraziamo insieme il Signore per come il Vangelo attecchisce e si diffonde in Papua Nuova Guinea e nelle Isole Salomone. Continuate così la vostra missione, come testimoni di coraggio, di bellezza e di speranza! E non dimenticate lo stile di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza. Sempre avanti con questo stile del Signore! Vi ringrazio per quello che fate, vi benedico tutti di cuore e vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me, perché ne ho bisogno, grazie!
Il saluto del presidente dei vescovi
Impegno costante nell’evangelizzazione
È con gioia e gratitudine che monsignor Otto Separy, vescovo di Bereina e presidente della Conferenza episcopale cattolica della Papua Nuova Guinea e delle Isole Salomone, ha rivolto il suo benvenuto a Papa Francesco. Gioia e gratitudine, ha detto, per un Pontefice che ha percorso «migliaia di chilometri» per giungere «fino a questa parte del mondo, si potrebbe dire fino alle periferie. È una terra bellissima — ha evidenziato il presule — con ottocento lingue e culture diverse e migliaia di tribù».
Monsignor Separy ha quindi messo in luce due significati che emergono dalla presenza del «Vicario di Cristo» nel Paese: da un lato, essa «contribuisce a riaffermare e ravvivare l’impegno e la dedizione a Cristo». Dall’altro, rappresenta «un dono prezioso per la Chiesa in questa terra e per ciascuno di noi individualmente, poiché conferma la comunione nell’unica fede». Di qui, il richiamo conclusivo del presidente dei vescovi all’impegno «continuo e instancabile nel nobile compito dell’evangelizzazione in Papua Nuova Guinea e nelle Isole Salomone».