· Città del Vaticano ·

Testimonianze
Nelle esperienze di una suora, un prete e due laici

Al servizio di realtà complesse

 Al servizio di realtà complesse  QUO-202
07 settembre 2024

La sfida di comunicare agli indigenti e a quanti si trovano nelle periferie, la fatica di integrare fede cattolica e identità culturale, l’impegno di trasmettere ai giovani l’entusiasmo della missione, la sinodalità da intessere alla cultura in evoluzione della Papua Nuova Guinea. Sono i temi delle testimonianze di una suora, un sacerdote, di rappresentanti dei catechisti e del Sinodo che Papa Francesco ha ascoltato nel corso dell’incontro con la Chiesa locale.

Suor Lorena Jenal nella diocesi di Mendi segue le attività della Casa della speranza, luogo di rifugio e guarigione per le vittime di accuse di stregoneria e malefici. Grazie a un lavoro concertato con i leader delle comunità, le famiglie, le diverse confessioni, i difensori dei diritti umani, la polizia, i funzionari dei tribunali e gli avvocati, ha spiegato, si opera «per proteggere le donne da false accuse e da estorsioni». Ciò ha permesso di aiutare 250 persone, tra cui Maria, torturata e ustionata «in modo così grave che non sapevamo se avremmo potuto salvarle la vita». Anche se i familiari non le facevano visita «per paura e vergogna», ricorda la religiosa, «li abbiamo incontrati ogni settimana e informati dei progressi». Rientrata a casa e giudicata innocente dal tribunale, Maria è diventata «testimone dell’importanza dell’amore e del perdono» e «oggi si batte per i diritti umani, la dignità e l’uguaglianza delle donne», ha concluso la suora.

La «vocazione tardiva» e un percorso da seminarista denso di ostacoli sono stati raccontati da don Emmanuel Moku, ordinato prete a 52 anni. Al centro della sua testimonianza, i problemi vissuti in un contesto di forte pressione: «Quando ho scelto il sacerdozio anteponendolo alle mie norme culturali, sono stato ridicolizzato e rifiutato», venendo definito «uno spreco di risorse umane» perché «il mio clan si aspettava che un uomo diventasse padre e lavorasse per sfamare la sua gente» ha detto. Anche se dopo l’ordinazione la situazione è migliorata, non mancano le sfide in un contesto in cui è faticoso integrare la fede cattolica con l’identità culturale, soprattutto «per comunicare il duplice scopo del matrimonio — compagnia per la vita e cura ed educazione dei figli — e per sostenere i giovani che faticano per poter accogliere la vocazione religiosa».

Per James Etariva, del distretto di Goilala, nella provincia centrale di Papua Nuova Guinea, la cosa più bella è «camminare per i villaggi e servire la gente, incoraggiare i bambini nella loro catechesi ed essere un amico per tutti». Nei lunghi anni di servizio catechistico — iniziato nel 1982 nella parrocchia della Sacra Famiglia nell’arcidiocesi di Port Moresby — ha affrontato numerose difficoltà, dalla mancanza di risorse alla conciliazione con le responsabilità famigliari, passando per gli spostamenti, anche a piedi, per raggiungere le comunità più distanti.

Alla testimonianza del catechista è infine seguita quella di Grace Wrakia, laica proveniente una famiglia cattolica di terza generazione e madre di tre figlie che ha cresciuto da sola e ha partecipato al Sinodo sulla sinodalità in Vaticano. Parlando di quell’esperienza come di «uno dei più grandi onori» della sua vita, si è chiesta fino a che punto il metodo sinodale possa trovare espressione nella «cultura in evoluzione» della Papua Nuova Guinea. Il desiderio è vedere «le donne partner e cooperatrici», i giovani «non ignorati o trascurati» ma «accolti con cuori e menti aperti», i sacerdoti e i religiosi non più considerati «grandi uomini» ma «leader servitori» e i laici parte attiva nella Chiesa e non solo spettatori. Ancora, seppur nella consapevolezza della gradualità del processo nel suo Paese, la donna ha confidato al Papa il sogno di una fusione reale degli aspetti sinodali con la vita della Chiesa locale.