· Città del Vaticano ·

Nel Paese a maggioranza cristiana i cattolici sono circa due milioni

Il Papa delle periferie
in una terra
dai forti contrasti

 Il Papa delle periferie in una terra tanto esotica quanto problematica  QUO-201
06 settembre 2024

Francesco, il Papa delle periferie, per la prima volta ha messo piede sul suolo dell’Oceania. Lo ha fatto arrivando a Port Moresby, capitale della Papua Nuova Guinea, nel pomeriggio di venerdì 6, seconda tappa di questo lungo viaggio internazionale, che lo sta portando in altre periferie del mondo, dopo le molte già visitate, a testimoniare la vicinanza della Chiesa anche nei luoghi più remoti.

E questo Paese, con le sue seicento isole disseminate nel Pacifico, è uno di questi luoghi, dove peraltro la presenza cristiana è preponderante: il 95 per cento dei nove milioni di abitanti, due milioni dei quali cattolici. Una presenza che risale al xix secolo, quando Gregorio xvi , nel 1844, eresse il vicariato apostolico di Melanesia, e che oggi Papa Bergoglio è venuto a confermare nella fede.

Una terra tanto esotica in quell’immaginario alimentato da visioni di spiagge incontaminate raccontate in innumerevoli libri e documentari, quanto problematica nella realtà per i suoi forti contrasti. Da una parte le bellezze naturali — spiagge bellissime, montagne coperte da rigogliose foreste, un’antichissima giungla, la terza più vasta foresta tropicale dopo l’Amazzonia e il bacino del fiume Congo —, dall’altra l’arretratezza delle infrastrutture, le difficoltà di comunicazione, l’isolamento di molte comunità, le violenze tribali, la criminalità, nonché la crisi climatica con l’innalzamento del livello del mare e le attività minerarie indiscriminate che minacciano un territorio fragile.

Francesco vi è giunto da Jakarta, dalla quale si era congedato in mattinata, letteralmente avvolto dall’entusiasmo e dall’affetto degli indonesiani. Alcune migliaia di persone, infatti, lo hanno atteso all’uscita dalla nunziatura apostolica e per un lungo tratto del percorso verso l’aeroporto della capitale indonesiana. Dove è arrivato con ritardo sul programma proprio per le tante soste che ha voluto fare per salutare in particolare i bambini.

Allo scalo “Soekarno-Hatta” la cerimonia di congedo è stata molto semplice. Al suo arrivo il Papa è stato accolto dal ministro per gli Affari religiosi, Yaqut Cholil Qoumas, dal cardinale arcivescovo di Jakarta, Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo, e dal presidente della Conferenza episcopale indonesiana, il vescovo Antonius Franciscus Subianto Bunjamin.

Ancora più impressionante la folla assiepatasi all’uscita dall’aeroporto di Port Moresby e lungo il percorso del corteo papale per dare il benvenuto al Pontefice. Migliaia di persone, per diversi chilometri, ai lati della strada — anche qui nella Papua Nuova Guinea molti bambini e ragazzi, tanti a piedi nudi — lo hanno infatti salutato con entusiasmo, sventolando bandierine e innalzando striscioni. In tanti avevano candele, piccole luci nel buio di una città scarsamente illuminata.

L’aereo papale, un Airbus A330 della Garuda Indonesia, partito da Jakarta alle 10.37 ora locale, è atterrato al Jacksons International Airport di Port Moresby alle 19.06 (le 11.37 in Italia), quando era dunque già calata la sera. Il consigliere di nunziatura “ad interim”, monsignor Maurizio Bravi, e il capo del Protocollo sono saliti a bordo per il primo saluto al Pontefice, che ai piedi della scaletta è stato accolto da due bambini in abiti tradizionali che gli hanno offerto dei fiori, dal vice primo ministro, John Rosso, e dall’arcivescovo di Port Moresby, cardinale John Ribat.

Il vescovo di Roma e il rappresentante del governo hanno raggiunto una pedana coperta dalla quale hanno assistito alla cerimonia ufficiale di benvenuto, con 21 colpi di cannone, la guardia d’onore, gli inni, l’onore alle bandiere e quindi la presentazione delle rispettive delegazioni. Al termine, accompagnato dal vice primo ministro, Francesco è salito in auto per raggiungere la nunziatura apostolica situata a Lolorua Street, accanto a Korobosea, un sobborgo di Port Moresby. Si tratta di un’area prevalentemente residenziale, che prende il nome da un grande villaggio i cui abitanti erano i Motu-Koitabu.

Colloquialmente conosciuta anche come Pom Town, la capitale con i suoi 325.000 abitanti è la città più grande, nonché principale porto della Papua Nuova Guinea. Sorge nella baia di Fairfax, sulla costa sud del Paese, e si affaccia sul Golfo di Papua. Dal 1975, dopo l’indipendenza dall’Australia, è cresciuta fino a diventare l’area più densamente popolata della nazione. Ma il forte aumento degli residenti ha portato uno sviluppo urbano caotico, disparità economica e un elevato tasso di criminalità. Moltissimi degli abitanti sono migranti interni, in particolare giovani; e non stupisce visto che il 40 per cento della popolazione ha meno di 15 anni. Ma ci sono anche profughi, molti dei quali si sono accampati sulle colline circostanti in insediamenti abusivi.

E Port Moresby è solo lo specchio di una situazione difficile più generalizzata. La Papua Nuova Guinea è infatti il Paese più povero del continente. Il 40 per cento della popolazione, che conta nove milioni di persone, vive sotto la soglia della povertà. Inoltre l’80 per cento degli abitanti si trova in zone remote e difficilmente raggiungibili.

Una situazione di vulnerabilità evidenziatasi tragicamente con la devastante frana che il 24 maggio scorso ha cancellato sei villaggi nella provincia di Enga, provocando oltre duemila vittime. Un bilancio terribile, reso ancora più grave dalle difficoltà nel raggiungere il luogo del disastro per l’orografia del territorio e le strade impervie.

Non solo. Questa è una terra dove si parlano oltre 800 lingue e anche gli usi e i costumi sono diversi da luogo a luogo. La maggior parte delle isole principali sono raggiungibili solo in aereo, peraltro con voli irregolari, ma pochi possono permetterselo. Inoltre il Paese è ancora alle prese con violenti scontri tribali, spesso innescati da dispute territoriali o accuse di furto. Scontri che negli ultimi anni si sono fatti più sanguinosi e mortali per l’afflusso di armi automatiche e che non risparmiano neppure le donne, anche incinte, e i bambini.

Le ultime violenze sono avvenute a metà luglio, provocando almeno 26 vittime accertate in tre villaggi lungo il fiume Sepik, nel distretto di Angoram. A febbraio scorso i morti erano stati 64 nella città di Wabag, sugli altopiani settentrionali.

A gennaio, invece, violente rivolte avevano causato 25 morti in tutto il Paese, con saccheggi e incendi. Gli scontri erano iniziati approfittando di uno sciopero della polizia e, secondo gli osservatori, hanno evidenziato gli enormi problemi sociali, come l’alto costo della vita, le disuguaglianze, la disoccupazione e la corruzione. Perciò, come ha spiegato al nostro giornale alla vigilia del viaggio il cardinale Ribat, qui «la sfida principale è la pace» e l’auspicio è che la presenza del Papa porti «luce, speranza e benedizione», incoraggiando a fare qualcosa di positivo e di buono «per la nostra nazione».

dal nostro inviato
Gaetano Vallini