· Città del Vaticano ·

Sarà beatificato in Slovacchia il seminarista della congregazione dei vincenziani Ján Havlík

Una vita in missione sulla «patena dell’amore»

 Una vita in missione  sulla «patena dell’amore»   QUO-195
30 agosto 2024

Sarà beatificato nella mattina di sabato 31 agosto a Šaštin, in Slovacchia, Ján Havlík, seminarista della congregazione della Missione (i cui membri sono noti anche come lazzaristi o vincenziani), riconosciuto martire della fede. La celebrazione si terrà nella basilica dei Sette dolori della Vergine Maria e il rappresentante di Papa Francesco sarà il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi.

Ján Havlík — Janko, come lo chiamavano gli amici — è stato l’uomo della fedeltà e della perseveranza, fino alla fine. Anzitutto fedeltà a Cristo e al sì alla vocazione sacerdotale e lazzarista; fedeltà nell’abbandono fiducioso alla volontà di Dio; fedeltà incrollabile alla Chiesa e al Papa; fedeltà nell’annuncio del Vangelo, nell’apostolato e nella carità; fedeltà nel lavoro; fedeltà nell’accogliere e accettare la sofferenza; fedeltà ai compagni nella giustizia e nella verità; fedeltà nel perdono.

Janko nasce il 12 febbraio 1928 nel villaggio di Vlčkovany (ora Dubovce), primogenito di quattro figli. La famiglia vive in condizioni di estrema povertà, e fin da bambino affronta sacrifici per frequentare la scuola. Nel 1943, a quindici anni, matura la propria scelta vocazionale: desidera essere sacerdote e missionario lazzarista, per annunciare l’amore di Dio ai poveri. Si trasferisce a Banská Bystrica, nel cuore della Slovacchia, per frequentare la scuola apostolica (l’equivalente di un seminario minore) della congregazione della Missione di san Vincenzo de’ Paoli. Nel 1948, il colpo di Stato comunista complica la situazione non solo per il percorso formativo di Janko, ma anche per la Chiesa cattolica in Slovacchia, che il nuovo regime considera nemica del popolo.

Nel 1949, il regime comunista intensifica gli sforzi per smantellare le Chiese cristiane del Paese, concentrandosi sulla Chiesa cattolica. Nel 1950, dopo il fallimento del tentativo di creare una “Chiesa di Stato”, il regime pianifica di eliminare gli ordini religiosi maschili e femminili dal Paese. I vincenziani vengono colpiti nella notte tra il 3 e il 4 maggio 1950: il novizio Ján Havlík, insieme ai compagni, sperimenta la deportazione, la rieducazione comunista, e i lavori forzati. Tre mesi dopo, pensando che la “rieducazione” abbia portato frutto, il regime manda tutti a casa. Ma Janko è e resta saldo nella fedeltà a Cristo e alla Chiesa. Nonostante il pericolo, insieme ad alcuni confratelli, frequenta un seminario clandestino, fermo nel suo desiderio di diventare sacerdote. I corsi si svolgono di sera, per conservare un’apparenza di normalità lavorando di giorno. Tuttavia, il 28 ottobre 1951 la polizia segreta fa irruzione e arresta tutti i presenti che restano prigionieri quindici mesi, caratterizzati da violenze e torture, prima del processo che si svolge tra il 3 e il 5 febbraio 1953. L’accusa è di «alto tradimento mirato a rovesciare il nostro sistema di democrazia popolare». La sentenza è severissima: Ján Havlík viene condannato a quattordici anni di reclusione, ridotti poi a dieci. Viene etichettato come MUkL (muž určený k likvidácii, uomo destinato all’eliminazione). Fermo nel suo abbandono alla volontà di Dio, dice alla madre: «Abbiamo voluto offrire a Dio il sacrificio più santo e ora gli porgiamo le nostre vite sulla patena dell’amore».

Janko viene inviato nei campi di lavoro, costretto a estrarre uranio senza protezione. Nonostante tutte le angherie, anche nei momenti più bui, è fedele alla missione, si dedica instancabilmente ad aiutare i compagni, sul piano materiale e spirituale. Suo tratto caratteristico è il sorriso, che non abbandona il suo volto neanche durante la prigionia. «Con il sorriso emanava pace e speranza», testimonia un compagno di prigionia.

Fedele alla chiamata del Signore, anche in carcere professa i valori cristiani e non nasconde la sua vocazione. Questa convinzione lo rende un bersaglio. Viene picchiato, rinchiuso isolamento per mesi, costretto ai lavori più duri (che — come sottolineano gli stessi carcerieri — esegue sempre con precisione e nel migliore dei modi, anche quando è ormai senza forze fisiche), interrogato brutalmente a qualsiasi ora del giorno e della notte. I suoi amici, vedendolo soffrire, gli consigliano di essere meno rigido nel suo impegno missionario, ma per lui non esistono compromessi quando si tratta di essere fedele all’impegno di annunciare l’amore di Dio e aiutare i fratelli.

A causa di questa perseveranza, viene ulteriormente accusato di crimini contro lo Stato e nel 1959 è condannato a un altro anno di reclusione: la sua attività missionaria è considerata incompatibile con la “libertà religiosa” proclamata dalla Costituzione del Paese.

L’ultimo periodo di prigionia è il più difficile. Soprattutto nel 1958, come ricorda nelle sue memorie, le torture, fisiche e psicologiche, mettono alla prova la sua fede incrollabile. Janko attraversa un’esperienza di profondo smarrimento spirituale da cui riesce a emergere nella totale fedeltà alla volontà di Dio, impegnandosi a vivere «come preghiera ogni movimento, atto, sospiro o respiro».

Entrato in prigione all’età di 23 anni, è rilasciato il 23 ottobre 1962 quando ne ha 34. Il suo stato di salute è compromesso e debilitato da undici anni di sofferenze fisiche e psichiche, ma nella “Comunicazione di rilascio” le autorità segnalano che «non si può affermare che la pena abbia raggiunto il proprio obiettivo di rieducazione». Il tempo, le sofferenze, le umiliazioni, la persecuzione non sono riusciti a indebolire la sua fede.

Trascorre gli ultimi tre anni della vita a casa della madre, dedicando le poche forze rimaste all’apostolato, accompagnando i bambini della prima Comunione, visitando i malati, traducendo testi religiosi e scrivendo la Via Crucis delle anime piccole, nella quale immagina un bambino che accompagna Cristo al Golgota. Nessun lamento per le sofferenze incessanti, per il dolore che non lo lascia mai, nessuna parola di accusa nei confronti dei persecutori. «Sapeva distinguere tra l’ideologia in sé e i portatori dell’ideologia», scrive un compagno di prigionia. Rifiuta l’ideologia, ma accoglie tutti, anche i carcerieri.

Janko muore il giorno del suo onomastico, il 27 dicembre 1965, festa di san Giovanni Evangelista, a 37 anni. Egli incarna pienamente ciò che Papa Francesco ha scritto nella Evangelii gaudium: «Io sono una missione in questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo» (n. 273). È stato un discepolo missionario, lì dove è stato posto. Nel buio dei pozzi e dei cunicoli della miniera partecipava alle messe clandestine, aiutava a preparare e a distribuire l’Eucaristia, «come in missione — diceva — perché un luogo migliore e più difficile di missione non avrebbe potuto immaginarlo nessun missionario».

Nella nostra cultura del provvisorio e dell’effimero, Janko è testimone di fedeltà e perseveranza, anche per la vita consacrata. «Io sono una missione per la vita degli altri»: la sua vita, offerta “sulla patena dell’amore” è, in particolare per tutta la Famiglia vincenziana, occasione per rinnovare la fedeltà a Cristo, alla Chiesa, al Papa.

*Postulatore generale

di Serhiy Pavlish*