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Hic sunt leones

Jihadismo africano ieri e oggi

 Jihadismo africano ieri e oggi  QUO-195
30 agosto 2024

Il fenomeno del jihadismo, inteso come pensiero rivoluzionario, ha avuto il suo incipit proprio in Africa e più precisamente in Egitto per opera di Sayyd Qutb, giustiziato per impiccagione il 29 agosto del 1966 sotto il regime di Gamal Abd el-Nasser. Nella sua dottrina sovversiva, ancora oggi fonte d’ispirazione per i fautori dell’ideologia islamista, la parola chiave è jahiliyyah che nel linguaggio islamico indica l’epoca dell’ignoranza, cioè quella precedente la rivelazione coranica. Per Qutb si tratta dell’ignoranza nei confronti dell’autorità di Dio sull’uomo. Ed è proprio la jahiliyyah che, per Qutb, unisce i sistemi democratici, il comunismo sovietico, i regimi arabi, opponendoli al vero islam, quello che il jihad, in un’interpretazione estremista del suo significato coranico di “sforzo sulla via di Allah”, deve imporre con la forza, rovesciando i regimi arabi occidentalizzati. Egli era fermamente convinto del fatto che i sistemi democratici e comunisti, anche i regimi arabi, filo-occidentali o filosovietici, seguono leggi umane e non la legge divina, quindi devono essere definiti con una qualifica inequivocabile, quella di usurpatori. Il vero Stato islamico, in questa prospettiva, è il solo che salva il mondo dalla jahiliyyah perché riaffida a Dio il potere, visto che il suo obiettivo è far attuare e rispettare la legge di Dio, la shari’a. Il pensiero del sunnita Qutb ha posto così le basi un’ideologia estremista che ha prima contaminato il Medio Oriente, ma successivamente ha interessato il continente africano, proponendosi come paradigma di una visione teocratica totalitaria e violenta.

Il primo vero e proprio atto terroristico compiuto in Africa risale al 1973, quando, la sera del 1° marzo, i militanti della fazione Settembre Nero, affiliata al movimento al Fatah, occuparono l’ambasciata saudita a Khartoum (Sudan), mentre era in corso un ricevimento, prendendo in ostaggio l’ambasciatore americano Cleo Noel, l’incaricato d’affari George Curtis Moore e altre persone. Il giorno successivo Noel, Moore e il diplomatico belga Guy Eid vennero assassinati a freddo dai sequestratori, a seguito del rifiuto del presidente Richard Nixon di negoziare la loro liberazione in cambio del rilascio di Sirhan Bishara Sirhan — il palestinese che aveva ucciso Robert Kennedy — e di altri terroristi detenuti nelle carceri israeliane ed europee. Ma la questione della presenza di cellule terroristiche islamiche nell’Africa sub-sahariana divenne centrale a partire della fine degli anni Novanta quando il 7 agosto 1998 furono simultaneamente compiuti due attentati rivendicati da Osama bin Laden e dall’organizzazione da lui guidata, al Qāida, nelle sedi diplomatiche degli Stati Uniti in Kenya e Tanzania, con un bilancio complessivo di 223 morti (tra cui 12 cittadini statunitensi) e circa 4.000 feriti.

In questo contesto, un ruolo centrale nella diffusione dell’ideologia jihadista venne svolto dal regime sudanese. Infatti, con il graduale dissolvimento del regime sovietico, la fazione sudanese della Fratellanza musulmana guidata da Hassan el-Turabi (un intellettuale poco amante delle cariche pubbliche che assunse il ruolo di ideologo del fondamentalismo islamico sudanese oltre che di eminenza grigia del regime) sostenne il golpe, il 30 giugno 1989, del generale Omar Hassan Ahmed al Bashir predicando una politica dichiaratamente antioccidentale. Sta di fatto che il Sudan finì nella lista degli “Stati Canaglia” stilata dal Dipartimento di Stato Usa, con l’accusa di sostegno al terrorismo. Oltre ad essere considerata uno dei principali covi Qāida, Khartoum venne accusata di ospitare membri dell’Hizballah libanese, dell’egiziana Gama’at al-Islamiyya, di al-Jihad, della palestinese Islamic Jihad, di Hamas e dell’organizzazione Abu Nidal. Ritenuto uno dei maggiori centri di addestramento per terroristi, all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Yniti, il regime di al Bashir fino al giorno della sua caduta nel 2019, si sforzò di prendere formalmente le distanze dal terrorismo; purtroppo, non nella sostanza.

Il Sudan, comunque, non fu l’unica culla del terrorismo di matrice islamista. Dopo la rivoluzione del 1969, il leader libico, Muammar Gheddafi, coltivò ambizioni egemoniche all’interno del mondo arabo e musulmano, e per questo appoggiò e sovvenzionò a lungo gruppi radicali, in particolare quelli legati a movimenti di liberazione nazionale e di guerriglia. Durante la guerra fredda, nei pressi di Bengasi, venne istituito il “Centro Rivoluzionario Mondiale” (Wrc). Lo storico Stephen Ellis, autore del saggio “The Mask of Anarchy: The Destruction of Liberia and the Religious Dimension of an African Civil War” spiega che la Cia considerava il Wrc come un sito estremamente pericoloso, trattandosi di una base di addestramento per gruppi ribelli capaci di destabilizzare numerosi Paesi che Gheddafi includeva nei suoi programmi. Si pensi a Foday Sankoh, fondatore del Fronte Unito Rivoluzionario (Ruf), il movimento antigovernativo che negli anni ‘90 mise a ferro e fuoco la Sierra Leone. Lo stesso vale per l’ex dittatore liberiano Charles Taylor il quale dimostrò grande perspicacia non solo nell’apprendimento delle tecniche di combattimento, ma anche nello studio delle scienze politiche, che al Wrc si richiamavano agli ideali della rivoluzione libica. In questa controversa accademia militare sono passati anche l’ex presidente burkinabé Blaise Compaoré e il defunto capo di stato ciadiano Idriss Déby.

Da rilevare che vi è ampia documentazione riguardante azioni di destabilizzazione condotte, particolarmente negli anni ‘80 e ‘90, grazie all’appoggio libico in Algeria, Burkina Faso, Ciad, Egitto, Sierra Leone, Sudan, ex Zaire, Tunisia e Niger. Di per sé, comunque, l’azione di Gheddafi aveva appunto un obiettivo politico di egemonia e di questo considerava le turbolenze di matrice islamista nell’Africa Subsahariana solo uno strumento.

Nel processo evolutivo di affermazione del cosiddetto integralismo estremista islamico, rilevanti furono gli eventi che segnarono la guerra civile algerina negli anni ‘90. Inizialmente, fu considerevole il ruolo del Gruppo Islamico Armato (Gia), militarmente operativo dal 1992 dopo il colpo di Stato dei militari in Algeria che aveva estromesso ed arrestato gli esponenti del Fronte Islamico di Salvezza (Fis), il partito filo-islamico che aveva appena vinto le elezioni. Successivamente, nel 1996, Hassan Hattab, un ex paracadutista, accusò il Gia di colpire indiscriminatamente la popolazione civile negli attacchi terroristici, un tipo di modus operandi che alienava le simpatie ed il sostegno della gente. Per questo motivo decise di fondare la propria formazione: il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), con lo scopo di rovesciare il governo dell’Algeria ed istituirvi uno Stato islamico. Dopo anni di scontro con le autorità e l’esercito algerino, senza riuscire a prendere il potere, questo gruppo armato si ritirò in vaste zone del sud del Paese, affiliandosi nel 2005 ad al-Qāida, con la denominazione Al-Qāida nel Maghreb islamico (Aqmi). Nella pratica il gruppo intendeva così qualificare le proprie operazioni armate non soltanto in un contesto di lotta contro le autorità algerine, ma in un più ampio scenario internazionale. Questo indirizzo venne sancito il 3 gennaio del 2007, dall’emiro Abdel Malik Droukdal alias Abu Mussab Abdel Woudou, il quale annunciò, in un video diffuso attraverso la rete internettiana, la sua intenzione di associarsi a Osama Bin Laden.

D’allora, come dire, molta acqua è passata sotto i ponti, e le formazioni jihadiste hanno subito una vera e propria sporulazione in Africa: dalla fascia saheliana al Corno d’Africa, spingendosi addirittura a meridione, nel nord del Mozambico. Inquadrare, comunque, oggi questa galassia di forze islamiste presenti nel continente, esclusivamente nella prospettiva di una lotta globale contro l’Occidente, sotto una struttura di comando centralizzata indicata come Al-Qāida o Isis, non rende conto della complessità del fenomeno in cui entrano in gioco anche questioni locali, proprie dei singoli Stati in cui operano le suddette cellule eversive. Ad esempio, al Shabaab, in Somalia o Boko Haram in Nigeria, hanno trovato ispirazione nei conflitti in atto nei rispettivi territori tra le oligarchie locali, per il controllo del potere. Queste formazioni, non solo erano già preesistenti rispetto alla caduta, nel 2011, del regime di Gheddafi, ma hanno sempre colpito chiunque osteggiasse il loro delirio d’onnipotenza: musulmani, cristiani, animisti… Numericamente, ad esempio, i terroristi nigeriani hanno ucciso in questi anni più musulmani che cristiani e ogni volta che hanno perpetrato attentati contro chiese e istituzioni cristiane (al Shabaab in Kenya perché il governo di Nairobi è intervenuto militarmente in Somalia e Boko Haram in Nigeria e nel vicino Camerun) l’hanno fatto perché queste azioni sarebbero state riprese dalle testate internazionali mainstream avendo così risonanza a livello internazionale. Il concetto, poi, di network, indicante una struttura ramificata che non si esaurisce solo esclusivamente nelle aree mediorientali, ma anche in Africa, serve a molti gruppi armati ad attribuire un’identità e un peso politico alla lotta che perseguono contro le forze governative che vi si oppongono.

di Giulio Albanese