Kinzang Lhamo, 26 anni, atleta del Bhutan, è arrivata ottantesima — ultima — al traguardo della maratona dei Giochi di Parigi dopo aver corso per 3h52’59”. La vincitrice Siffan Hassan (Paesi Bassi, di origine etiope) era arrivata già da un’ora e mezza. E da 58 minuti aveva concluso la maratona la 79ª, la nepalese Santoshi Shrestha.
Sicuramente Kinzang è stata l’atleta ad aver ricevuto più applausi lungo le strade di Parigi. Per la tenacia, virtù propria di chi corre maratone. «Il mio Paese non mi ha mandato a Parigi per iniziare la corsa, ma per finirla» ha tagliato corto, a caldo. Con una consapevolezza schietta: aver in qualche modo ispirato tantissime persone in tutto il mondo. Come a dire: se mai ti sentirai di non farcela o di non essere abbastanza “performante”, pensa al sostegno, all’affetto che Kinzang ha ricevuto fino al traguardo, nel pieno di difficoltà e di crisi. E se vale per la maratona, ancor più vale per la vita.
Militare della Royal Bhutanese Army, Kinzang voleva «a tutti costi finire la maratona, solo quello». Sapeva benissimo di non poter aspirare a riscontri cronometrici significativi — a Parigi, comunque, ha ottenuto il suo record personale — e tantomeno al podio o a piazzamenti di rilievo. Ha partecipato punto e basta, senza avere le medaglie come obiettivo. «Volevo solo partire e arrivare, non ritirarmi lungo la strada», dichiara.
Aggiungendo che, in fondo, ognuno nello sport, e nelle Olimpiadi in particolare, ci vede quello che preferisce. Per molti è la conquista di medaglie e se così non avviene, si parla di fallimento. Ma per altri «basta esserci, arrivare», con un’esperienza personale.
Non nasconde di aver camminato per alcuni tratti della maratona olimpica, quando proprio non ce la faceva più a correre. Lo testimonia anche il tempo che sfiora le 4h. Ma proprio nei momenti di crisi, quando la fatica le impediva, appunto, persino di accennare il gesto della corsa, Kinzang ha ricevuto il sostegno più acceso. Persone che non la conoscevano l’hanno letteralmente accompagnata tra applausi e incitamenti.
Perché la corsa di Kinzang non è stata “solo” una questione agonistica. E se lo sport è metafora della vita, la maratona lo è in modo ancora più chiaro per tutti.
Per questa ragione è stata “abbracciata” persino più della Hassan e delle popolarissime atlete forti. Kinzang ha sì rappresentato la propria storia e il suo Paese (3 gli atleti del Bhutan a Parigi). Ma correndo con quello stile, in realtà, ha rappresentato tutti. Quando ha tagliato il traguardo — accolta dalla standing ovation del folto pubblico che l’ha attesa — è crollata a terra: ha dovuto far ricorso a una sedia a rotelle per rientrare nel Villaggio olimpico. Ha dato tutta se stessa.
Oltretutto Kinzang non è una maratoneta vera e propria: corre distanze enormi per passione. La 42km195 di Parigi è stata la sua prima competizione internazionale, non aveva mai corso fuori dai confini del suo Paese. Nel 2022 era arrivata seconda nella Snowman Race: 203 km, all’ombra dell’Himalaya. In quella zona aveva corso anche la “5 giorni” a Chamkhar. Non pensando a medaglie ma a esperienze di vita.
Nella maratona olimpica di Parigi, Rose Harvey — britannica, 32 anni il 25 agosto — è arrivata 78ª in 2h51’03”.
Avvocato che ha iniziato a correre per evitare il traffico e il caos dei mezzi pubblici di Londra, dopo pochi passi della maratona ha avvertito un forte dolore ma — anche lei — tenacemente non si è fermata. I controlli medici hanno poi diagnosticato una frattura da stress al femore.
Rose ci ha impiegato circa 30’ in più del previsto: «Forse in qualsiasi altra gara mi sarei fermata, ci sono stati tanti momenti in cui ho pensato di non poter fare neanche un passo in più. Nonostante che i miei obiettivi di gara fossero sfumati, c’era il sogno olimpico a cui potevo aggrapparmi: finire la maratona. Non potevo arrendermi. Correndo continuavo a ripetermi di sorridere, di assorbire l’energia che mi dava quella folla incredibile e di mettere un piede davanti all’altro». È la maratona, metafora della vita.
di Giampaolo Mattei