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Dal dialogo un contributo alla pace

 Dal dialogo  un contributo alla pace  QUO-188
22 agosto 2024

 

In un tempo come questo, carico di laceranti tensioni ma  bisognoso di ancorare il futuro a una speranza solida, risuona di grande attualità l’ultima parte del capitolo iv della «Evangelii gaudium» dedicata al «dialogo sociale come contributo alla pace». Si tratta, scrive Papa Francesco, di «un servizio» che la Chiesa compie «in favore del pieno sviluppo dell’essere umano» e del «bene comune», privilegiando in particolare tre “interlocutori”: gli Stati, la società e  gli altri credenti (238).  

Nel dialogo con i primi due soggetti essa è cosciente di non disporre «di soluzioni per tutte le questioni particolari»; tuttavia non si sottrae al confronto e «propone sempre con chiarezza i valori fondamentali dell’esistenza umana, per trasmettere convinzioni che poi possano tradursi in azioni politiche» (241). In questo ambito, un apporto significativo alla costruzione della pace è offerto anche dal dialogo con la scienza, intrapreso con la consapevolezza che «la fede non ha paura della ragione»: anzi, «la cerca e ha fiducia in essa», perché sa che entrambe — fede e ragione — «provengono da Dio e non possono contraddirsi tra loro» (242).

Il terzo ambito indicato nel capitolo, quello del dialogo con gli altri credenti, offre al Pontefice anzitutto l’occasione per rilanciare «l’impegno ecumenico»  — che «risponde alla preghiera del Signore Gesù:  “tutti siano una sola cosa”» (244) — e per rimarcare «la gravità» dello «scandalo dei cristiani divisi» (246) soprattutto in quelle terre di missione dove «la ricerca di percorsi di unità diventa urgente». Uno «sguardo molto speciale» il Papa rivolge poi al popolo ebreo, la cui fede va considerata «la radice sacra» dell’identità cristiana (247). Infine dedica parole accorate alla necessità di intensificare il dialogo interreligioso, definito «una condizione necessaria per la pace nel mondo» e dunque «un dovere per i cristiani» (250).

Lungi dall’opporsi fra loro, dialogo e annuncio vanno di pari passo: non serve infatti «un’apertura diplomatica che dice sì a tutto per evitare i problemi», perché questo — avverte Francesco — «sarebbe un modo di ingannare l’altro». Occorre invece «mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con un’identità chiara e gioiosa, ma aperti a comprendere quelle dell’altro» (251). Questo vale, in particolare, nel dialogo con l’islam, che «in quest’epoca acquista una notevole importanza» (252) e che il Pontefice mette in relazione con due grandi “sfide” : l’attenzione agli immigrati, che «noi cristiani dovremmo accogliere con affetto e rispetto» (253), e la libertà religiosa, che resta «un diritto umano fondamentale» (255) da assicurare e garantire in ogni Paese.

238. L’evangelizzazione implica anche un cammino di dialogo. Per la Chiesa, in questo tempo ci sono in modo particolare tre ambiti di dialogo nei quali deve essere presente, per adempiere un servizio in favore del pieno sviluppo dell’essere umano e perseguire il bene comune: il dialogo con gli Stati, con la società — che comprende il dialogo con le culture e le scienze — e quello con altri credenti che non fanno parte della Chiesa cattolica. In tutti i casi «la Chiesa parla a partire da quella luce che le offre la fede», [Benedetto xvi, Discorso alla Curia Romana (21 dicembre 2012): aas 105 (2006), 51] apporta la sua esperienza di duemila anni e conserva sempre nella memoria le vite e le sofferenze degli esseri umani. Questo va aldilà della ragione umana, ma ha anche un significato che può arricchire quelli che non credono e invita la ragione ad ampliare le sue prospettive. (...)

240. Allo Stato compete la cura e la promozione del bene comune della società. Sulla base dei principi di sussidiarietà e di solidarietà, e con un notevole sforzo di dialogo politico e di creazione del consenso, svolge un ruolo fondamentale, che non può essere delegato, nel perseguire lo sviluppo integrale di tutti. Questo ruolo, nelle circostanze attuali, esige una profonda umiltà sociale.

241. Nel dialogo con lo Stato e con la società, la Chiesa non dispone di soluzioni per tutte le questioni particolari. Tuttavia, insieme con le diverse forze sociali, accompagna le proposte che meglio possono rispondere alla dignità della persona umana e al bene comune. Nel farlo, propone sempre con chiarezza i valori fondamentali dell’esistenza umana, per trasmettere convinzioni che poi possano tradursi in azioni politiche.

242. Anche il dialogo tra scienza e fede è parte dell’azione evangelizzatrice che favorisce la pace. Lo scientismo e il positivismo si rifiutano di «ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle proprie delle scienze positive». [Giovanni Paolo ii, Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), 88: aas 91 (1999), 74] La Chiesa propone un altro cammino, che esige una sintesi tra un uso responsabile delle metodologie proprie delle scienze empiriche e gli altri saperi come la filosofia, la teologia, e la stessa fede, che eleva l’essere umano fino al mistero che trascende la natura e l’intelligenza umana. La fede non ha paura della ragione; al contrario, la cerca e ha fiducia in essa, perché «la luce della ragione e quella della fede provengono ambedue da Dio», [San Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, i, vii; cfr. Giovanni Paolo ii, Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), 43: aas 91 (1999), 39] e non possono contraddirsi tra loro. (...)

243. La Chiesa non pretende di arrestare il mirabile progresso delle scienze. Al contrario, si rallegra e perfino gode riconoscendo l’enorme potenziale che Dio ha dato alla mente umana. Quando il progresso delle scienze, mantenendosi con rigore accademico nel campo del loro specifico oggetto, rende evidente una determinata conclusione che la ragione non può negare, la fede non la contraddice. Tanto meno i credenti possono pretendere che un’opinione scientifica a loro gradita, e che non è stata neppure sufficientemente comprovata, acquisisca il peso di un dogma di fede. Però, in alcune occasioni, alcuni scienziati vanno oltre l’oggetto formale della loro disciplina e si sbilanciano con affermazioni o conclusioni che eccedono il campo propriamente scientifico. In tal caso, non è la ragione ciò che si propone, ma una determinata ideologia, che chiude la strada ad un dialogo autentico, pacifico e fruttuoso.

244. L’impegno ecumenico risponde alla preghiera del Signore Gesù che chiede che «tutti siano una sola cosa» (Gv 17, 21). La credibilità dell’annuncio cristiano sarebbe molto più grande se i cristiani superassero le loro divisioni e la Chiesa realizzasse «la pienezza della cattolicità a lei propria in quei figli che le sono certo uniti col battesimo, ma sono separati dalla sua piena comunione». [Conc. Ecum. Vat. ii, Decr. sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, 4] Dobbiamo sempre ricordare che siamo pellegrini, e che peregriniamo insieme. A tale scopo bisogna affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze, e guardare anzitutto a quello che cerchiamo: la pace nel volto dell’unico Dio. Affidarsi all’altro è qualcosa di artigianale, la pace è artigianale. Gesù ci ha detto: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5, 9). In questo impegno, anche tra di noi, si compie l’antica profezia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri» (Is 2, 4). (...)

246. Data la gravità della controtestimonianza della divisione tra cristiani, particolarmente in Asia e Africa, la ricerca di percorsi di unità diventa urgente. I missionari in quei continenti menzionano ripetutamente le critiche, le lamentele e le derisioni che ricevono a causa dello scandalo dei cristiani divisi. Se ci concentriamo sulle convinzioni che ci uniscono e ricordiamo il principio della gerarchia delle verità, potremo camminare speditamente verso forme comuni di annuncio, di servizio e di testimonianza. L’immensa moltitudine che non ha accolto l’annuncio di Gesù Cristo non può lasciarci indifferenti. Pertanto, l’impegno per un’unità che faciliti l’accoglienza di Gesù Cristo smette di essere mera diplomazia o un adempimento forzato, per trasformarsi in una via imprescindibile dell’evangelizzazione. I segni di divisione tra cristiani in Paesi che già sono lacerati dalla violenza, aggiungono altra violenza da parte di coloro che dovrebbero essere un attivo fermento di pace. Sono tante e tanto preziose le cose che ci uniscono! E se realmente crediamo nella libera e generosa azione dello Spirito, quante cose possiamo imparare gli uni dagli altri! Non si tratta solamente di ricevere informazioni sugli altri per conoscerli meglio, ma di raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi. Solo per fare un esempio, nel dialogo con i fratelli ortodossi, noi cattolici abbiamo la possibilità di imparare qualcosa di più sul significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità. Attraverso uno scambio di doni, lo Spirito può condurci sempre di più alla verità e al bene.

247. Uno sguardo molto speciale si rivolge al popolo ebreo, la cui Alleanza con Dio non è mai stata revocata, perché «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11, 29). La Chiesa, che condivide con l’Ebraismo una parte importante delle Sacre Scritture, considera il popolo dell’Alleanza e la sua fede come una radice sacra della propria identità cristiana (cfr. Rm 11, 16-18). Come cristiani non possiamo considerare l’Ebraismo come una religione estranea, né includiamo gli ebrei tra quanti sono chiamati ad abbandonare gli idoli per convertirsi al vero Dio (cfr. 1 Ts 1, 9). Crediamo insieme con loro nell’unico Dio che agisce nella storia, e accogliamo con loro la comune Parola rivelata. (...)

250. Un atteggiamento di apertura nella verità e nell’amore deve caratterizzare il dialogo con i credenti delle religioni non cristiane, nonostante i vari ostacoli e le difficoltà, particolarmente i fondamentalismi da ambo le parti. Questo dialogo interreligioso è una condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto è un dovere per i cristiani, come per le altre comunità religiose. Questo dialogo è in primo luogo una conversazione sulla vita umana o semplicemente, come propongono i vescovi dell’India «un’atteggiamento di apertura verso di loro, condividendo le loro gioie e le loro pene». [Catholic Bishops’ Conference of India, Dichiarazione finale della 30.ma Assemblea generale: The Church’s Role for a better India (8 marzo 2012), 8.9] Così impariamo ad accettare gli altri nel loro differente modo di essere, di pensare e di esprimersi. Con questo metodo, potremo assumere insieme il dovere di servire la giustizia e la pace, che dovrà diventare un criterio fondamentale di qualsiasi interscambio. (...)

251. In questo dialogo, sempre affabile e cordiale, non si deve mai trascurare il vincolo essenziale tra dialogo e annuncio, che porta la Chiesa a mantenere ed intensificare le relazioni con i non cristiani. Un sincretismo conciliante sarebbe in ultima analisi un totalitarismo di quanti pretendono di conciliare prescindendo da valori che li trascendono e di cui non sono padroni. La vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con un’identità chiara e gioiosa, ma aperti «a comprendere quelle dell’altro» e «sapendo che il dialogo può arricchire ognuno». [Giovanni Paolo ii, Lett. enc. Redemptoris missio (7 dicembre 1990), 56: aas 83 (1991), 304] Non ci serve un’apertura diplomatica, che dice sì a tutto per evitare i problemi, perché sarebbe un modo di ingannare l’altro e di negargli il bene che uno ha ricevuto come un dono da condividere generosamente. L’evangelizzazione e il dialogo interreligioso, lungi dall’opporsi tra loro, si sostengono e si alimentano reciprocamente.

252. In quest’epoca acquista una notevole importanza la relazione con i credenti dell’Islam, oggi particolarmente presenti in molti Paesi di tradizione cristiana dove essi possono celebrare liberamente il loro culto e vivere integrati nella società. Non bisogna mai dimenticare che essi, «professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale». [Conc. Ecum. Vat. ii, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 16] Gli scritti sacri dell’Islam conservano parte degli insegnamenti cristiani; Gesù Cristo e Maria sono oggetto di profonda venerazione ed è ammirevole vedere come giovani e anziani, donne e uomini dell’Islam sono capaci di dedicare quotidianamente tempo alla preghiera e di partecipare fedelmente ai loro riti religiosi. Al tempo stesso, molti di loro sono profondamente convinti che la loro vita, nella sua totalità, è di Dio e per Lui. Riconoscono anche la necessità di rispondere a Dio con un impegno etico e con la misericordia verso i più poveri.

253. Per sostenere il dialogo con l’Islam è indispensabile la formazione adeguata degli interlocutori, non solo perché siano solidamente e gioiosamente radicati nella loro identità, ma perché siano capaci di riconoscere i valori degli altri, di comprendere le preoccupazioni soggiacenti alle loro richieste e di fare emergere le convinzioni comuni. Noi cristiani dovremmo accogliere con affetto e rispetto gli immigrati dell’Islam che arrivano nei nostri Paesi, così come speriamo e preghiamo di essere accolti e rispettati nei Paesi di tradizione islamica. Prego, imploro umilmente tali Paesi affinché assicurino libertà ai cristiani affinché possano celebrare il loro culto e vivere la loro fede, tenendo conto della libertà che i credenti dell’Islam godono nei paesi occidentali! Di fronte ad episodi di fondamentalismo violento che ci preoccupano, l’affetto verso gli autentici credenti dell’Islam deve portarci ad evitare odiose generalizzazioni, perché il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza. (...)

255. I Padri sinodali hanno ricordato l’importanza del rispetto per la libertà religiosa, considerata come un diritto umano fondamentale. Essa comprende «la libertà di scegliere la religione che si considera vera e di manifestare pubblicamente la propria fede». [Benedettto xvi, Esort. ap. postsinodale Ecclesia in Medio Oriente (14 settembre 2012), 26: aas 104 (2012), 762] Un sano pluralismo, che davvero rispetti gli altri ed i valori come tali, non implica una privatizzazione delle religioni, con la pretesa di ridurle al silenzio e all’oscurità della coscienza di ciascuno, o alla marginalità del recinto chiuso delle chiese, delle sinagoghe o delle moschee. Si tratterebbe, in definitiva, di una nuova forma di discriminazione e di autoritarismo. Il rispetto dovuto alle minoranze di agnostici o di non credenti non deve imporsi in un modo arbitrario che metta a tacere le convinzioni di maggioranze credenti o ignori la ricchezza delle tradizioni religiose. Questo alla lunga fomenterebbe più il risentimento che la tolleranza e la pace.