· Città del Vaticano ·

Anniversari - A quarant’anni dalla morte di Karl Rahner (1904-1984)
Il gesuita tedesco è il più citato nella Lettera di Papa Francesco su letteratura e formazione

La ferialità della vita
nei versi dei poeti

 La ferialità della vita  nei versi dei poeti  QUO-180
08 agosto 2024

L’autore più citato nella Lettera di Papa Francesco «sul ruolo della letteratura nella formazione», pubblicata domenica 4 agosto, non è un romanziere o un poeta ma un teologo, il gesuita tedesco Karl Rahner. Questo genio del pensiero di cui in questo 2024 si ricorda il doppio anniversario della nascita, 5 marzo 1904, e della morte, 30 marzo 1984, viene citato dal testo del Papa in particolare nei punti 23-25 in cui si fa riferimento alla sua intuizione sull’affinità spirituale profonda tra la figura del sacerdote e quella del poeta. Sacerdote e poeta è anche il titolo dato a una raccolta di saggi teologici a sfondo letterario che il Papa cita nella Lettera, laddove in particolare Rahner parla delle parole del poeta come «piene di nostalgia», «porte che si aprono sull’infinito, porte che si spalancano sull’immensità. Esse evocano l’ineffabile, tendono verso l’ineffabile».

Questa parola poetica secondo il teologo «si affaccia sull’infinito, ma non può darci questo infinito, né può portare o nascondere in sé colui che è l’Infinito». Quindi, osserva Francesco, «per i cristiani la Parola è Dio e tutte le parole umane recano traccia di una intrinseca nostalgia di Dio, tendendo verso quella Parola. Si può dire che la parola veramente poetica partecipa analogicamente della Parola di Dio, come ce la presenta in maniera dirompente la Lettera agli Ebrei (cfr. Eb 4, 12-13)». Già nell’Evangelii Gaudium il Papa aveva riflettuto su questa “ineffabilità” di Dio che neanche la Parola con la P maiuscola, può raggiungere se non come nostalgia. Anzi la stessa Parola risulta inafferrabile per gli uomini. Scriveva Bergoglio nell’esortazione apostolica del 2013 che «la Parola ha in sé una potenzialità che non possiamo prevedere.

Il Vangelo parla di un seme che, una volta seminato, cresce da sé anche quando l’agricoltore dorme (cfr Mc 4,26-29). La Chiesa deve accettare questa libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi» (Evangelii Gaudium 22). In uno di questi “saggi letterari” degli anni Sessanta, La parola della poesia e il cristiano, troviamo questa analoga e immaginifica affermazione di Rahner: «Fintanto che in una parola non ci afferra l’inafferrabilità di Dio, se non ci alletta ad entrare nella sua lucente oscurità, se non ci fa uscire dalla casupola della realtà segretamente e familiarmente comprensibile verso la notte inquietante, che sola è la vera patria, noi non avremmo capito, o avremmo capito male tutte le parole del cristianesimo». Da una parte c’è la casupola familiare, comprensibile, dall’altra c’è la notte inquietante, che però è la sola “vera patria” dell’uomo, da qui la sua inestinguibile nostalgia. È questo il senso della Lettera scritta da Francesco e, da questo punto di vista, del suo intero pontificato: scuotere la coscienza dei cristiani e di ogni uomo, per “uscire”, da sé innanzitutto, per lasciare il già conosciuto, il “si è sempre fatto così” e muoversi verso un nuovo, un inedito che però, paradossalmente, è la vera casa, quella “lucente oscurità” che ci attira e di cui avvertiamo la mancanza. Questa tensione che la Parola divina e, analogicamente, la parola umana suscitano nel cuore dell’uomo, non si scatena solo in momenti drammatici, tragici, solenni, ma nella ferialità della vita quotidiana. Il Papa, citando un altro saggio letterario di Rahner, Il futuro del libro religioso, osserva che «la letteratura prende, in verità, spunto dalla quotidianità della vita, dalle sue passioni e dalle sue vicende reali come “l’azione, il lavoro, l’amore, la morte e tutte le povere cose che riempiono la vita”». Questi saggi sono maturati nel pensiero di Rahner tra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta.

Nel 1955 scrive un’introduzione al libro di poesie del confratello Jorge Blajot, che poi verrà pubblicata come saggio con il titolo Sacerdote e poeta, con questo incipit: «Al poeta è affidata la parola. Purtroppo non esiste ancora una teologia della parola ed è davvero un peccato che nessuno finora si sia data la pena, come già fece Ezechiele, di raccogliere tutte le membra sparse nei campi della filosofia e della teologia per pronunciare su di esse la parola dello spirito e farle così risorgere in un corpo vivente!». L’esclamazione, un po’ sgomenta, preludeva all’impresa che lui stesso si diede la pena di realizzare nel decennio successivo, quella teologia della parola di cui rimpiangeva la mancanza e che troverà una sistematizzazione in quattro ulteriori saggi: La biblioteca parrocchiale. Principi per una teologia del libro (1959), La parola della poesia e il cristiano (1960), Il futuro del libro religioso e La missione del letterato e l’esistenza cristiana entrambi del 1966 una cinquantina d’anni dopo raccolti in due volumetti editi dalla San Paolo: Sacerdote e poeta e Letteratura e cristianesimo nati soprattutto grazie al lavoro svolto da padre Antonio Spadaro, cultore della letteratura e quindi anche del suo confratello teologo.

Il quale, pur essendo un raffinato, complesso, campione della teologia, sembra in questi saggi confidare con maggiore fiducia nella parola poetica che in quella filosofica o teologica, in nome del valore della concretezza perché «la poesia deve parlare della realtà concreta e non far ballare come marionette i principi astratti. Il singolo e il concreto però sono un mistero, che viene svelato soltanto dal giudizio che è unicamente e solo di Dio, e che il poeta lascia stare come mistero. La sua poesia perciò non deve affatto avere quella chiarezza e quella semplicità edificante che numerosi cattivi pedagoghi desidererebbero tanto per i loro allievi».

Il teologo è fin troppo chiaro riguardo alla chiarezza, che ritiene un pericolo da fuggire, da qui l’opzione a favore della poesia. La parola della poesia infatti è spesso confusa, “equivoca”, al contrario di altre parole, come quella pubblicità o della propaganda, che sono chiare, “univoche”, di fatto “dittatoriali”. La poesia ha il dono della libertà, nasce dalla libertà e genera libertà. Una poesia, come un romanzo, ha questo dono e destino, di abitare la domanda, non di offrire risposte a basso costo. La letteratura mantenere aperta la domanda, senza chiudere il lettore in facili risposte: il grande rischio di una letteratura dichiaratamente cristiana è infatti per Rahner quello di cadere in una pia e angusta “semplicità edificante”. È questo il pericolo di un cristianesimo “borghese”, da evitare a tutti i costi. Scrive Rahner: «Poesia grande esiste soltanto là dove l’uomo si pone radicalmente di fronte a ciò che egli è. Può fare questo ed essere ingolfato tuttavia nella colpa, nella perversità, nell’odio di sé e in demoniaca superbia può presentarsi a se stesso come peccatore e con questi identificarsi. Così però è nel beato pericolo di incontrare Dio più di quanto lo sia il piatto borghesuccio, che paurosamente sfugge a priori agli abissi dell’esistenza, rifugiandosi in quella superficialità nella quale non s’incontra il dubbio, ma neppure Dio».

La vita è drammatica, ci dice Rahner, è una lotta, una guerra, e il campo di battaglia, come ricorda Dostoevskij, è il cuore dell’uomo. In questo continuo conflitto ogni momento è “decisivo” e la scelta è appunto tra il tuffarsi negli “abissi dell’esistenza” o rimanere a galla sulla “superficialità”.

In questa guerra senza tregua, viene in soccorso la poesia che però al tempo stesso chiede soccorso agli spiriti più avveduti, per cui Rahner non può che ammonire che: «In tempi nei quali l’umano e il poetico sembrano deperire, sepolti sotto le opere dell’ingegno tecnico e soffocati dalle chiacchiere delle masse, il cristianesimo deve difendere l’umano e il poetico (…) la parola divina reca in sé l’essenza della parola poetica. Noi cristiani dobbiamo amare e difendere la poesia, perché dobbiamo difendere l’umano, poiché Dio stesso l’ha assunto nella sua realtà eterna».

Ora si comprende ancora di più la scelta, l’urgenza da parte di Papa Francesco, di scrivere e pubblicare una lettera sul valore della poesia e della letteratura.

di Andrea Monda


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