A somiglianza
Un esempio di «carità pastorale», «amore per la Chiesa» e «senso della fraternità cattolica». Così il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi, ha definito Stefano Douayhy, patriarca di Antiochia dei Maroniti, durante la messa di beatificazione presieduta in Libano ieri sera, venerdì 2 agosto, in rappresentanza di Papa Francesco. Alla cerimonia, che si è tenuta nella sede del Patriarcato a Bkerke, hanno partecipato 13 mila fedeli. Pubblichiamo una traduzione italiana dell’omelia pronunciata dal porporato in francese.
Spesso, recitando i Salmi, capita di ripetere il versetto cantato prima della proclamazione del Vangelo: «Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano» (Sal 92, 13). La palma ha una caratteristica: il suo tronco è lungo e spoglio, ma si leva verso il cielo e, in alto, offre i suoi frutti saporiti ai nomadi che attraversano il deserto. È così che deve essere l’uomo giusto: una fonte di pace e di vita per i suoi fratelli quando attraversano i deserti, ossia nelle difficoltà della vita. Poi c’è un secondo paragone, che parla del “cedro del Libano”, e almeno per me, cari fratelli e sorelle, per me che vengo da Roma, questa immagine ha un effetto del tutto speciale. Il cedro risplende per la sua maestosità, per lo splendore verdeggiante del suo fogliame e la qualità del suo legno. Nella rilettura cristiana rappresenta il credente saldamente piantato nella casa di Dio, che è la Chiesa, che si dona verdeggiante per offrire sollievo ai suoi fratelli.
Quando Benedetto xvi è venuto in Libano, ha ricordato che il tempio costruito da Salomone al suo interno era arredato con il legno del cedro del Libano. Il Libano era presente nel santuario di Dio, ha detto. Si è ricordato, poiché era presente, del patriarca Béchara Boutros Raï, che ho abbracciato con affetto fraterno. Il Papa ha aggiunto alcune parole che oggi riascoltiamo con tanta speranza: «Possano il Libano di oggi, i suoi abitanti, continuare ad essere presenti nel santuario di Dio! Possa il Libano continuare ad essere uno spazio in cui gli uomini e le donne vivano in armonia e in pace gli uni con gli altri per offrire al mondo non solo la testimonianza dell’esistenza di Dio, […], ma ugualmente quella della comunione tra gli uomini […], qualunque sia la loro sensibilità politica, comunitaria e religiosa!» (Cerimonia di congedo, 16 settembre 2012).
È con questa stessa speranza che oggi guardiamo alla figura del nuovo beato Stefano Douayhy. È stato patriarca della Chiesa maronita per più di trent’anni, in un periodo molto difficile a causa delle persecuzioni esterne e dei dissensi interni. Si può dire che in tutti quegli anni non ha vissuto un solo giorno di pace e di serenità. Gli è perfino capitato più volte di dover lasciare la sede patriarcale per rifugiarsi in luoghi più sicuri, ma in condizioni difficili. Viveva tutto come una vocazione a condividere le sofferenze di Cristo (cfr. Col 1, 24). Pertanto, nel suo cuore non c’era risentimento, bensì diceva a quanti lo avevano maltrattato e perseguitato: «Ti perdono ciò che mi hai fatto e sono pronto a soffrire ancora per amore del Signore, che ha sofferto ed è morto per me».
Egli imita così la figura del buon pastore del vangelo, che prende Gesù a modello e riferimento. Abbiamo appena ascoltato le sue parole: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10, 11). Questa figura, a ben guardare, non è quella di un pastore, bensì di un “buon pastore”. Forse dovremmo riflettere un istante su questa affermazione. Che cosa intende dire il Signore? Quella aggiunta era necessaria? Penso di sì, poiché il profeta Ezechiele aveva già parlato di pastori che, invece di pascere le loro pecore, pascevano se stessi. Purtroppo, queste cose accadono ancora oggi. Ci sono persone che, invece di servire il bene comune, pensano al proprio benessere.
È per questo che Gesù parla di un “buon” pastore. Si è buoni quando si nutre nel proprio cuore l’intenzione di fare il bene e poi lo si fa attraverso scelte e comportamenti adeguati. Ma Gesù va anche oltre: è buono il pastore che dà la vita per le sue pecore. Ed è in questo che il nostro beato lo ha davvero imitato. È stato un pastore che ha sofferto per e con il suo gregge e che ha fatto tutto il possibile per difenderlo, proteggerlo e farlo crescere.
Ma era anche prudente e perfino diplomatico. È ben nota una delle sue lettere al re di Francia Luigi xiv, nella quale espone tutte le sofferenze del popolo e gli chiede di prenderlo sotto la sua ala protettrice. C’è anche un altro aspetto per il quale il beato Stefano merita di essere ricordato e che è di grande attualità nella Chiesa oggi: quello ecumenico. Il patriarca Stefano, di fatto, ha esercitato anche la carità ecumenica, sempre animato da un acuto senso della cattolicità della Chiesa, vissuta in contesti — come già ricordato — spesso resi difficili dai rapporti con le altre confessioni cristiane e con l’islam.
Gli esempi che ci giungono da lui sono dunque quelli della carità pastorale, dell’amore per la Chiesa e del senso della fraternità cattolica. Chiediamo quindi al Signore di saper esprimere anche noi, per intercessione del beato Stefano, il nostro essere Chiesa, il nostro essere amici e fratelli in Cristo nostro Signore.