Hic sunt leones

La macroregione del Sahel si trova al centro di complesse dinamiche che non coinvolgono solo gli Stati che ne fanno parte ma anche i principali attori internazionali. Dal punto di vista geografico, si estende per 8.500 chilometri tra l’oceano Atlantico e il Mar Rosso su una superficie di circa sei milioni di chilometri quadrati. La miglior descrizione di questa fascia di terra che attraversa orizzontalmente il continente africano la troviamo racchiusa nel suo stesso nome, Sahel, che proviene dall’arabo «Sahil», letteralmente «bordo del deserto» perché separa il deserto del Sahara, a settentrione, dalla savana sudanese, a meridione. Dal punto di vista squisitamente geopolitico, il Sahel è composto da Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. Nell’attuale congiuntura, i fattori in gioco sono diversi e la loro interazione è sempre più enigmatica. Se da una parte vi è una palese messa in discussione dei fondamenti normativi che legavano tre dei principali Paesi saheliani — vale a dire Burkina Faso, Mali e Niger — all’Ecowas/Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), intesa tanto come spazio regionale quanto come organizzazione, al contempo vi è un evidente riassetto e ridefinizione dei rispettivi spazi d’influenza. La principale preoccupazione è comunque legata alla persistente azione invasiva dei gruppi jihadisti che continuano a rappresentare un elemento altamente destabilizzante. Tutto questo in un contesto profondamente segnato dai cambiamenti nella politica internazionale e nell’ordine globale. Ma andiamo per ordine. Il 28 gennaio 2024 i leader delle giunte militari di Mali, Burkina Faso e Niger, che avevano formato l’Alleanza degli Stati del Sahel (Alliance des États du Sahel, Aes), hanno dichiarato di ritirarsi dal blocco Ecowas/Cedeao. La loro decisione ha generato uno shock nel panorama politico regionale e continentale. La situazione si è ulteriormente deteriorata il 6 luglio scorso quando i presidenti delle giunte militari golpiste che governano il Burkina Faso, il Mali e il Niger hanno fondato a Niamey, con una cerimonia dai toni solenni, la Confédération des États du Sahel, proprio alla vigilia del 65° summit dell’Ecowas/Cedeao di cui facevano parte. D’altronde c’era da aspettarselo considerando che le sanzioni imposte al regime golpista nigerino dall’Ecowas/Ceadeao a seguito del golpe del 26 luglio dello scorso anno hanno di fatto danneggiato la già stremata popolazione civile più che i vertici della giunta che si intendeva colpire. Inoltre, questo isolamento ha acuito a dismisura l’insicurezza per la mancanza di approvvigionamenti e mezzi di sussistenza, particolarmente in quell’area geografica in cui convergono i confini del Burkina Faso, del Mali e del Niger, ma anche lungo la frontiera tra Mali e Niger e quella tra Niger e Nigeria. Quest’ultima, con la chiusura del confine, ha impedito ogni forma di commercio transfrontaliero aggravando la miseria in cui versano le popolazioni autoctone. Se a questo aggiungiamo la fine della Missione multidimensionale integrata di stabilizzazione delle Nazioni Unite in Mali (Minusma), il ritiro della Francia da Burkina Faso, Mali e Niger, è evidente che la situazione è fuori controllo. Com’è noto, sfruttando le tensioni tra le leadership saheliane dissidenti e i francesi (con i loro alleati europei e regionali), la Russia è improvvisamente emersa come un attore importante. Il primo a dare questo indirizzo è stato il capo della giunta maliana, il colonnello Assimi Goïta, che ha scelto la Russia come partner (prima con il gruppo paramilitare della Wagner e oggi con altre società affiliate) per contrastare i movimenti jihadisti. Il Burkina Faso, nel frattempo, per decisa volontà della giunta del capitano Ibrahim Traoré ha incrementato la propria cooperazione militare con Mosca in termini di forniture militari, mentre il Niger ha aperto le porte a un contingente di Africa corps. Sta di fatto che di fronte a un intervento europeo che si trascinava da anni, era ingenuo sperare che lo scambio di forze di contrasto potesse portare più sicurezza. La conferma viene dalle missioni diplomatiche della Russia in Mali e in Niger che hanno emesso in questi giorni avvisi di minaccia terroristica, sconsigliando ufficialmente e categoricamente ai cittadini russi di recarsi in questi Paesi africani per ragioni di sicurezza. Come riferisce il sito Internet della rivista Africa, «le missioni diplomatiche russe a Bamako e a Niamey spiegano che, in particolare nell’area dei tre confini tra Mali, Niger e Burkina Faso, si sta sviluppando una situazione estremamente pericolosa, con l’attività dei gruppi jihadisti armati sempre più intensa nelle regioni di Gao, Menaka (Mali) e Tillaberi (Niger), area dove vi sono anche gruppi armati legati ai ribelli dell’Azawad, in conflitto in particolare con la giunta militare del Mali». Nelle note ufficiali diramate dalle rappresentanze diplomatiche accreditate nei due Paesi saheliani si legge che «i viaggi fuori Bamako e Niamey sono fortemente scoraggiati a causa dell’elevata probabilità di attacchi terroristici, rapine e rapimenti» precisando che ai propri connazionali presenti nelle due capitali viene caldamente raccomandato di astenersi dall’uscire di casa di notte. La verità è che le milizie jihadiste stanno prendendo sempre più il sopravvento nella fascia saheliana. La sensazione è che gli estremisti islamici stiano approfittando, almeno in parte, delle turbolenze in atto a livello globale. La contrapposizione tra il blocco occidentale e quello filorusso, a seguito della crisi armata che insanguina l’Europa orientale, sta avendo un impatto su tutta l’Africa e in particolare sul versante occidentale del continente. Emblematica è stata la presa di posizione, lo scorso 7 luglio, del neoeletto presidente senegalese Bassirou Diomaye Faye, nella capitale nigeriana, Abuja, durante del primo vertice dell’Ecowas/Cedeao a cui prendeva parte in qualità di capo di Stato. Secondo indiscrezioni raccolte da Radio France Internationale (Rfi), il neopresidente senegalese ha evidenziato i rischi di una possibile implosione dell’Ecowas/Cedeao a causa dell’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger, sottolineando che l’organizzazione comunitaria potrà continuare ad esistere guardando al futuro nella misura in cui potrà essere più sovrana e meno soggetta alle ingerenze straniere. Nonostante i capi di Stato dell’Ecowas/Cedeao si siano dimostrati ancora disponibili al dialogo con i tre governi secessionisti del Sahel, il leader della giunta militare del Niger, Abdourahamane Tchiani, ha dichiarato senza mezzi termini che il suo Paese, con i suoi alleati Burkina Faso e Mali, «insieme hanno irrevocabilmente voltato le spalle all’Ecowas/Cedeao». L’orientamento politico del triunvirato saheliano è comunque chiaro e ben definito. Oltre alla Russia, si stanno rivolgendo a Turchia, Iran e Cina che, dal loro punto di vista, possono essere considerati «partner sinceri e molto interessati alle risorse minerarie, in particolare uranifere e di idrocarburi del sottosuolo saheliano». Si tratta di un deciso cambiamento di rotta che si è manifestato palesemente nelle settimane scorse con la decisione della giunta militare nigerina di revocare alla multinazionale canadese GoviEx Uranium Inc. (GoviEx) i diritti sull’area della concessione mineraria di Madaouela. L’azienda mineraria di uranio con sede a Vancouver temeva che la sua licenza potesse essere revocata se l’attività estrattiva non fosse iniziata entro il 3 luglio 2024, scadenza fissata dai vertici militari del Niger. GoviEx si è riservata «il diritto di contestare la decisione di ritirare i diritti minerari dinanzi alle giurisdizioni nazionali o internazionali competenti». Guardando al futuro, considerando la complessità dello scacchiere geopolitico africano, è difficile fare previsioni sia per gli Stati saheliani come per gli altri Stati dell’Africa occidentale. Ma è di fondamentale importanza che questi tentino di cercare punti d’incontro, ricucendo lo strappo attraverso soluzioni africane.
di Giulio Albanese