La buona Notizia
I vangeli costituiscono un grande racconto di malintesi. Nella Palestina del i secolo, nessuno capisce nulla. Ebrei, samaritani, idumei, nabatei, greci o romani, gli uomini e le donne non comprendono né come devono comportarsi né cosa fanno su questa terra; quanto ai discepoli, sebbene scelti e illuminati, si comportano da maldestri, coraggiosi ma ottusi, sempre sorpresi, mai perspicaci, ripetendo interpretazioni affrettate alla presenza di Gesù; dimostrano costantemente di credere di sapere invece di sapere di credere. Di fronte a tanti equivoci, l’instancabile Gesù non può quindi accontentarsi di rivelarsi, è costretto a spiegarsi.
L’episodio del pane celeste fa parte delle sue salutari delucidazioni, anche per noi che siamo, duemila anni dopo, tanto confusi quanto i contemporanei di Gesù.
Dopo la moltiplicazione dei pani — cinque pani hanno sfamato cinquemila persone che si erano radunate per vederlo e ascoltarlo — Gesù, come era sua abitudine, si allontana e i discepoli lo cercano, come era loro abitudine. Gesù li accoglie in modo alquanto duro, perché sospetta che sono venuti, come cani, a reclamare la loro ciotola: «Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna». Ovviamente i suoi interlocutori non recepiscono il messaggio. Gesù ricorda allora l’antico prodigio della manna: per gli Ebrei che camminavano con Mosè nel deserto, i pani piovevano ogni giorno dal cielo (cfr. Esodo, 16, 19-20). Ora, visto che gli Ebrei sono sazi, si tratta dunque di un pane diverso, non quello che nutre la carne ma quello che sostiene il cuore poiché «non di solo pane vive l’uomo».
Gesù si riferisce a un pane spirituale, un pane che non esce dalla terra, un pane che viene dal Cielo, che ci permette di continuare il nostro cammino mentre il nostro ventre digerisce, un pane immateriale, al di sopra di ogni sostanza. Se, come la manna, rappresenta un dono di Dio agli uomini, non le assomiglia perché risponde a una fame diversa. Gesù aveva detto ai discepoli: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Giovanni, 4, 34), conferendo così una dimensione simbolica al cibo. In continuità con l’interpretazione della manna nel Deuteronomio (8, 3) e nel libro della Sapienza (16), afferma che quel cibo è insieme un dono e il frutto di un lavoro, regalo di Dio e al tempo stesso del lavoro umano. «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Giovanni, 6, 51). Questo pane procura la vita eterna, e non quella effimera della terra.
«Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!». Gesù ridefinisce la fame e la sete. Che cosa sono? Fisicamente o intellettualmente, fame e sete sono mancanze. Di conseguenza, chiunque viene a Gesù — ossia crede in lui — non conoscerà più la mancanza, né l’assenza di senso, né il difetto dei valori. Il cristiano sfuggirà al vuoto, al nichilismo, all’incompiutezza, e avanzerà spiritualmente completo, sazio, al centro.
di Éric-Emmanuel Schmitt