L’applicazione della tregua olimpica avrebbe impedito anche che un razzo massacrasse dodici ragazzini, e ne ferisse oltre trenta, sorpresi sabato pomeriggio mentre giocavano a calcio a Majdam Shams, sulle alture del Golan. Sono morti cercando di far gol e sognando, chissà, di partecipare alle Olimpiadi o più semplicemente di far parte del Mamba, la squadra locale. Avevano tra i 10 e i 16 anni. Ai Giochi sono in gara anche loro coetanei: la più giovane è la skateboarder cinese Zheng Haohao con i suoi 11 anni. Però a Parigi la strage dei giovanissimi calciatori sembra avvolta dal silenzio: non una parola, non un gesto, come se l’omicidio di quei ragazzini che correvano dietro a un pallone non riguardasse anche tutto il mondo dello sport.
All’Angelus, ieri, Papa Francesco ha rilanciato l’appello per la pace: «Bruciare risorse alimentando guerre grandi e piccole», con il fiorente commercio delle armi mentre «c’è tanta gente che soffre per le calamità e la fame», «è uno scandalo che la comunità internazionale non dovrebbe tollerare, e contraddice lo spirito di fratellanza dei Giochi Olimpici appena iniziati».
E a Parigi atlete e atleti condividono storie di riscatto e di speranza che, nella loro essenza, sono esperienze di fraternità. La schermitrice italo-brasiliana Nathalie Moellhausen, 38 anni, ha affrontato in pedana la canadese Ruien Xiao nonostante un tumore alla colonna vertebrale scoperto cinque mesi fa e che, proprio negli ultimi giorni, l’aveva costretta in ospedale. Durante l’incontro si è sentita male ma non si è voluta ritirare: ha perso 15-11 e subito è stata ricoverata per un intervento chirurgico. Moellhausen ai Giochi voleva proprio esserci, anche per un gesto solidale con le persone che vivono l’esperienza della malattia.
Nella prova di cross country di mountain bike è arrivata terza ma gli abbracci sono stati tutti per lei: Jenny Rissveds, svedese, 30 anni, è caduta nella depressione, con disturbi alimentari, dopo aver vinto l’oro ai Giochi del 2016. Il successo ottenuto «troppo presto» a prezzo di rinunce forzate e anche la morte improvvisa dei nonni «hanno spento la luce» nella sua vita. «Per due anni sono rimasta completamente bloccata» racconta Rissveds.
Con un percorso di riscatto è «tornata a vivere e al ciclismo», fondando il Team 31 per richiamare l’articolo della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata dall’Onu nel 1989, che riconosce «al fanciullo il diritto di dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età». Rissveds non perde occasione per denunciare «i rischi per la salute mentale» degli atleti: ieri in gara c’erano, tra gli altri, il nuotatore britannico Adam Peaty e la ginnasta statunitense Simone Biles, che non nascondono il «buco nero» nelle loro vite.
La prima ad abbracciare Rissveds dopo il traguardo è stata la statunitense Haley Batten, 25 anni, giunta seconda, che le è stata vicina «sulla strada della rinascita», in particolare dopo aver avuto, l’anno scorso, una commozione cerebrale per una caduta. Sono amiche vere: Rissveds, in piena corsa per le medaglie, passando davanti ai box ha avvertito il meccanico degli Stati Uniti che Batten era attardata da una foratura. Il pronto cambio della ruota ha consentito il recupero della ciclista che ha poi superato l’amica in volata.
di Giampaolo Mattei
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