Sudan

C’è un «costo umano» della guerra in Sudan che è quello pagato dalla popolazione civile, da oltre un anno «vittima di violenze indiscriminate di ogni genere, tra omicidi, torture e violenze sessuali ed etniche». A denunciarlo è Medici senza frontiere (Msf), che ieri ad Amman ha presentato il rapporto “A war on people”. Dal 15 aprile 2023 a combattere per il controllo del Paese africano sono l’esercito, comandato da Abdel Fattah al-Burhan, e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf), agli ordini di Mohamed Hamdan Dagalo, in un sanguinoso conflitto in cui sono entrati in gioco gruppi e alleanze sul terreno, man mano che le operazioni belliche si sono estese da Khartoum al resto del Sudan.
«Continuiamo a rispondere alle urgenti necessità mediche e alle conseguenze delle violenze in corso, ulteriormente aggravate dalla mancanza di accesso umanitario e dal palese disprezzo per la vita umana e il diritto umanitario internazionale» da parte delle fazioni in conflitto, ha dichiarato Vickie Hawkins, direttrice generale di Msf, nella conferenza stampa di presentazione del rapporto. La guerra, ha aggiunto, sta avendo un «effetto disastroso sulla salute e sul benessere» dei sudanesi, con più di 24 milioni di persone — più della metà sono bambini — che hanno bisogno di assistenza umanitaria. Quasi 10 milioni sono gli sfollati interni e 2 milioni i rifugiati nei Paesi limitrofi, Ciad, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Egitto, Etiopia. La triste conta dei morti rimane ulteriormente difficile perché le aree di combattimento rimangono perlopiù inaccessibili alle organizzazioni internazionali. Solo nell’ospedale Al Nao di Omdurman, supportato da Msf, sono state curate oltre 6.700 persone vittime di violenze tra agosto 2023 e aprile 2024, hanno riferito i team dell’organizzazione che hanno prestato soccorso a pazienti con ferite dovute a «esplosioni, colpi di arma da fuoco e accoltellamenti». La stessa struttura ospedaliera, ha documentato Msf, è stata bombardata tre volte. Sono almeno 60 gli episodi di violenza e attacchi che l’organizzazione ha subito al proprio personale e ai propri centri e materiali, in un quadro di collasso quasi totale del sistema sanitario. Gli ospedali, è stato ribadito, vengono saccheggiati e attaccati «sistematicamente» e secondo l’Organizzazione mondiale della sanità soltanto il 20-30 per cento delle strutture mediche nelle aree più difficili da raggiungere sono ancora funzionanti, anche se a livelli minimi.
In particolare nella regione occidentale del Darfur, mai ripresasi dalla guerra dei primi anni Duemila, con un bilancio di 300.000 morti, ci sono testimonianze di violenze sessuali e di genere. Un’indagine condotta da Msf su 135 donne sopravvissute a tali atrocità e assistite tra luglio e dicembre 2023 nei campi profughi in Ciad ha rilevato che il 90 per cento di loro ha subito abusi da parte di una persona armata, il 50 per cento nelle proprie case e il 40 per cento da più aggressori. «Non è purtroppo il primo conflitto in cui la violenza sessuale viene usata anche come arma di guerra», fa notare Vittorio Oppizzi, coordinatore dei programmi Msf in Sudan, in una conversazione con «L’Osservatore Romano»: si tratta di «una violenza inaudita contro tutti i gruppi di popolazione, più giovani, meno giovani, ma quelli a cui noi riusciamo a portare un supporto stimiamo essere una piccola parte della popolazione, coloro cioè che sono riusciti a scappare: purtroppo moltissimi sono quelli rimasti indietro, i morti, in Darfur». Sulla base di diverse testimonianze, per esempio di profughi da El Geneina, denunciati al contempo nuovi episodi di violenza etnica contro la popolazione della medesima regione, in particolare i Masalit e altre persone di etnia non araba.
In un contesto dunque sempre più emergenziale, quando il Paese è sull’orlo della carestia, la direttrice generale di Msf ha chiesto che i belligeranti fermino una guerra «insensata» e garantiscano la protezione dei civili. Determinante, dunque, è che gli aiuti arrivino alla popolazione, che prevalga anche «il rispetto degli operatori umanitari» e che non cessi in generale la risposta internazionale, ribadisce Oppizzi: «Non solo in Sudan ma pure nei Paesi confinanti, perché ad esempio in Ciad ci sono oltre mezzo milione di rifugiati, in Sud Sudan sono più di 700.000». A riprova del fatto che anche questa crisi, nella gravità dei conflitti globali, non può essere dimenticata.
di Giada Aquilino