Hic sunt leones
Africa, la mannaia

Le crisi internazionali, a partire da quella legata all’epidemia del covid-19 e alle ricadute dei conflitti come quello russo-ucraino, insieme alla difficile congiuntura economica globale, hanno purtroppo dato nuovi stimoli e nuove occasioni in Africa alla criminalità organizzata transnazionale (Toc, nell’acronimo in lingua inglese). Si tratta di un fenomeno sempre più pervasivo che penalizza pesantemente ogni settore della società, dagli attori statali alle comunità locali. Alimenta infatti corruzione e conflitti, si infiltra nel mondo degli affari e della politica e innesca violenza spesso rivolta ai più vulnerabili della società, mentre allo stesso tempo dirotta risorse che potrebbero essere dedicate allo sviluppo, alla riduzione della povertà o al miglioramento dei servizi di base.
Le organizzazioni criminali utilizzano legittime strutture statali per sostenere la circolazione e la vendita di beni illeciti, facilitare il riciclaggio di denaro e ridurre al minimo il rischio di procedimenti giudiziari. Inoltre, alcune forme di criminalità organizzata sono collegate a conflitti ed estremismo violento in Africa. Superando i confini, la criminalità organizzata minaccia la governance, la pace e lo sviluppo.
A questo proposito, c’è uno strumento, l’Enact Africa Organised Crime Index, che misura e valuta i livelli di criminalità organizzata nel continente africano stilandone una classifica in base ai livelli di criminalità nei vari paesi su un punteggio da 1 a 10, sia per i livelli di criminalità, sia per quelli di resilienza. La media dei 54 paesi africani è per la criminalità 5,25, e per la resilienza 3,25.
In termini di macroregionali, l’Africa orientale ha il punteggio più alto del continente per criminalità complessiva (5,88), seguita dall’Africa occidentale (5,44). La stessa Africa orientale si colloca tra le prime cinque zone del mondo sotto questo aspetto, in quanto focolaio di attività illecite e roccaforte di attori criminali, la cui influenza è aggravata da conflitti prolungati come quello somalo che rendono l’intero Corno d’Africa particolarmente vulnerabile. Basti pensare alla tratta di esseri umani che raggiunge un picco significativo in Eritrea e Sud Sudan. Tra i nove paesi che compongono lo scacchiere dell’Africa orientale, il Kenya si classifica al primo posto ed è quarto sul totale dei 54 paesi africani, mentre, a livello globale, è classificato al 16° posto su 194.
Più in generale, Libia, Eritrea, Repubblica Centrafricana e Repubblica Democratica del Congo presentano le situazioni più gravi, mentre Capo Verde, Senegal, Etiopia e Namibia si distinguono per un aumento della lotta contro il legame tra stato e criminalità. Lo scenario è comunque preoccupante se si considera che tra i primi 10 paesi al mondo per la presenza di criminalità organizzata, tre sono africani, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria e Sud Africa, rispettivamente al quinto, sesto e settimo posto.
Il coinvolgimento della malavita organizzata all’interno degli apparati statali o interno alle dinamiche governative non riguarda solo attori locali, ma spesso anche presenze straniere, come nel caso del gruppo paramilitare russo denominato Wagner. Esso risulta ben accreditato a livello istituzionale in alcuni paesi dell’Africa subsahariana e agisce, al tempo stesso, nel mondo del contrabbando, soprattutto per quello che riguarda lo sfruttamento illegale di siti minerari. A seguito della morte del suo fondatore, Evgenij Viktorovič Prigozhin, avvenuta nell’agosto del 2023, le attività della Wagner in Africa sono state in gran parte assorbite dal Gru, l’agenzia di intelligence militare russa.
L’Enact Index non è solo un esercizio analitico: è progettato per arricchire la base di prove per consentire risposte politiche più efficaci. In effetti, una radiografia può rivelare il problema, ma non indica il rimedio. Pertanto, le prove presentate nel suo rapporto annuale (l’ultimo risale al settembre 2023) possono essere utilizzate come strumento per apportare cambiamenti. Ad esempio, è stato rilevato che i paesi dove la democrazia è più radicata sono quelli in grado di fornire una risposta più soddisfacente al problema della criminalità organizzata, mentre più un regime è autoritario, più la malavita tende ad imporsi. Né contribuisce a migliorare la situazione la debolezza, oggi in Africa, di alcuni stati formalmente democratici e l’affermazione di poteri forti che ripropongono il modello dello stato-nazione, così come venne descritto dallo storico inglese Basil Davidson, secondo il quale una forma istituzionale di imitazione occidentale si traduce, nel contesto africano, in governi personali e autocratici, fondati sul nepotismo e la corruzione, esercitati a favore di alcune componenti etniche contro le altre. Vi sono comunque esempi positivi come le Isole Maurizio, il Ghana e il Botswana.
Riguardo ai gruppi criminali africani presenti in Italia emerge la propensione al traffico internazionale di sostanze stupefacenti e alla gestione dei flussi migratori illegali, anche connessi allo sfruttamento lavorativo e/o della prostituzione attraverso il costante utilizzo di metodi di forte coercizione fisica e psicologica sulle vittime. Tra le strutture criminali di matrice africana, una delle più pervasive è quella nigeriana, formata da diverse cellule criminali indipendenti e con strutture operative, differenziate ma interconnesse, dislocate in Italia e in altri Paesi europei ed extraeuropei. Le attività investigative condotte dalle forze di polizia evidenziano come tali consorterie abbiano assunto la conformazione di vere e proprie associazioni per delinquere, utilizzando modi operandi tipici delle mafie autoctone, tra i quali la forte propensione ad operare su business di portata transnazionale.
Particolare attenzione va riservata ai gruppi degli “eiye” e dei “black axe”, composti da nigeriani, ma anche da ghanesi. Dette formazioni, infatti, sarebbero riconducibili ai cosiddetti “secret cults” - da anni presenti in Italia e in altri paesi europei - noti per essere attivi nella commissione di gravi delitti, in opposizione ad altri gruppi rivali nell’ambito della comunità nigeriana. Tra quest’ultimi assumono rilevanza i “black cats” (che avrebbero come simbolo distintivo un gatto nero con un basco militare tatuato sulla spalla), le cui fonti di sostentamento deriverebbero sempre dal traffico di grossi quantitativi di droga e dallo sfruttamento della prostituzione.
Per quanto afferisce al fenomeno migratorio, il deteriorarsi della situazione in Libia ha portato a un intensificarsi di abusi e a una maggiore violenza verso i migranti che attraversano e stazionano in quelle zone. Alcune indagini avevano già svelato che molti migranti, arrivati in Libia dopo un viaggio in condizioni estreme, erano stati sottoposti a violenze e torture, rimanendo reclusi anche per mesi, nelle cosiddette connection houses, in alcuni casi trasformate in veri e propri campi di concentramento. Le cronache hanno dato evidenza di atrocità perpetrate in questi luoghi che rappresentano un oltraggio alla coscienza dell’umanità, barbarie alle quali si aggiunge la vendita in aste pubbliche come schiavi di molte tra queste persone, destinate a lavori forzati come braccianti o manodopera nei lavori di scavo. La condizione di irregolarità di tali migranti, che li espone al rischio di essere individuati e rimpatriati, viene sfruttata dalle organizzazioni criminali, le quali approfittano della loro debolezza presentandosi come l’unica alternativa praticabile per trovare una via d’uscita.
Una cosa è certa. Come ebbe a dire Papa Francesco in un’udienza concessa il 21 settembre 2017 alla Commissione parlamentare antimafia italiana, lottare contro le mafie, a qualsiasi latitudine siano, non significa solo reprimere, «significa anche bonificare, trasformare, costruire» agendo su due livelli: quello politico «attraverso una maggiore giustizia sociale» e quello economico, «attraverso la correzione o la cancellazione di quei meccanismi che generano dovunque disuguaglianza e povertà».
di Giulio Albanese