La benedizione:
Per introdurci nel tema della benedizione, proposto autorevolmente dalla dichiarazione Fiducia supplicans, pubblicata recentemente dal Dicastero per la Dottrina della fede, è opportuno prima di tutto provare a cogliere la portata teologica di un gesto che ha accompagnato la storia del popolo di Dio, che ha sempre rintracciato nel suo Creatore la possibilità della propria esistenza. Per evitare ogni possibile dicotomia tra dottrina e pastorale, la teologia può offrire interessanti spunti di riflessione.
Per approfondire il tema della benedizione, è importante da subito ribadire che Dio soltanto sia tanto l’origine quanto la fonte di ogni benedizione: Egli è l’unico a cui si può effettivamente additare l’aggettivo “benedetto”, riconoscendo in questo modo che Egli sia anche l’unico capace di effondere la sua benedizione su ogni creatura.
Una benedizione, quella di Dio, che non si arresta neanche dinnanzi alla costante infedeltà del suo popolo; anzi, proprio nel momento in cui l’uomo e la donna erano realmente incapaci di rispondere all’amore di Dio, il Padre ha effuso nuovamente (nel duplice significato di: “di nuovo” e “in modo nuovo”) la sua vera e più alta benedizione, donando al mondo il suo unico Figlio. Come afferma San Paolo agli Efesini: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (Ef 1, 3).
Coloro che ricevono la benedizione di Dio non trovano in quest’ultima una conferma del proprio modo di agire, ma fanno l’esperienza concreta di una “mossa” divina, nettamente più forte di ogni azione umana, capace sia di perdonare ogni peccato compiuto sia di precedere ogni tentativo o buona intenzione di evitare di cadere nuovamente nell’errore. Si tratta, infatti, di un’azione di grazia che previene ogni re-azione umana; è scritto nelle Premesse generali del Benedizionale: «Quando Dio o direttamente o per mezzo di altri benedice, sempre viene assicurato il suo aiuto, annunziata la sua grazia, proclamata la sua fedeltà all’alleanza sancita» (n. 6).
In questo senso, coloro che ricevono gratuitamente quel gesto di grazia da parte di Dio, sono chiamati a loro volta a rispondere, benedicendo Dio di tutti i suoi benefici, primo fra tutti quello di amare, non nonostante, ma in forza dell’infedeltà umana. Afferma, in tal senso, la dichiarazione Fiducia supplicans: «Benedire equivale così a lodare, celebrare, ringraziare Dio per la sua misericordia e fedeltà, per le meraviglie che ha creato e per tutto ciò che è avvenuto per sua volontà: “Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome” (Sal 103, 1)» (n. 15). Un figlio, quando prende consapevolezza del suo essere stato benedetto, risponde benedicendo a sua volta non solo il Padre, ma anche tutti i fratelli e sorelle, fino all’intera realtà in cui vive, riconoscendo come ogni cosa sia “buona”, in quanto frutto della benedizione di Dio: «Ritroviamo il dono divino che “discende”, il ringraziamento dell’uomo che “ascende” e la benedizione impartita dall’uomo che “si estende” verso i propri simili» (ibidem, n. 17).
Possiamo così rintracciare alcuni elementi caratteristici della benedizione nella sua accezione teologica. Una prima caratteristica consiste nel suo intrinseco carattere performativo, in quanto cioè si ha a che fare con un gesto, quello divino, capace realmente di generare nell’interlocutore la realtà che viene affermata attraverso un segno; per cui benedire non ha necessariamente e solo il significato di una “conferma” divina di un comportamento umano, ma ha a che fare in primo luogo con il ristabilimento di un’alleanza, attraverso la quale viene riaffermata l’assoluta preminenza del dono divino che si presenta nella sua assoluta gratuità.
Una seconda caratteristica della benedizione consiste nella sua dimensione temporale, vale a dire nella sua permanenza, in quanto, nonostante la creatura continui incessantemente a rimanere infedele all’amore gratuito di Dio, colui e colei che sono stati benedetti continuano a conservare in sé, come tratto decisivo del proprio essere, l’esperienza di quel dono di Dio, per cui una persona non potrà mai ridursi ad essere ciò che ha fatto, sta facendo o farà, in quanto sarà sempre più grande di ogni sua azione, per quanto peccaminosa possa essere. E più la creatura si allontana da quello stato di benedizione, vivendo così in una sorta di “maledizione” in cui si è auto-posta, più sperimenta in modo sempre nuovo quell’amore di Dio, capace di rinnovarla e di reinserirla in un’esistenza determinata dalla dinamica di reciprocità. Da qui nasce il desiderio di Dio. Colui e colei che sono stati benedetti, non perdono mai dal proprio essere quel segno relazionale, non in quanto capaci ormai di non trasgredire più, ma in quanto resi ininterrottamente oggetto del perdono di Dio.
C’è infine una terza caratteristica, che introduce nella dimensione più antropologica della riflessione, vale a dire il carattere ridondante della benedizione, in quanto coloro che sono stati oggetto della benedizione di Dio sono chiamati, a loro volta, a benedire altri nel suo nome. Il dono ricevuto da Dio, di cui il singolo ha usufruito, non può essere sepolto “sotto terra”, ma conosce un intrinseco dinamismo per cui, chi ha fatto esperienza della benedizione di Dio, sente nella sua interiorità la necessità di benedire a sua volta. In questo scenario entra in gioco l’azione ecclesiale di benedire. Scrive Fiducia supplicans: «Nel suo mistero di amore, attraverso Cristo, Dio comunica alla sua Chiesa il potere di benedire. Concessa da Dio all’essere umano ed elargita da questi al prossimo, la benedizione si trasforma in inclusione, solidarietà e pacificazione. È un messaggio positivo di conforto, custodia e incoraggiamento. La benedizione esprime l’abbraccio misericordioso di Dio e la maternità della Chiesa che invita il fedele ad avere gli stessi sentimenti di Dio verso i propri fratelli e sorelle» (n. 19).
In altre parole, la benedizione effusa dalla Chiesa è e continua ad essere segno della grazia di Dio, capace in ogni tempo e in ogni luogo di raggiungere, toccare e afferrare la sua creatura in qualunque situazione si trovi. Il gesto ecclesiale della benedizione, dunque, è l’affermazione della gratuità di Dio e dell’esistenza di una forza, quella divina, superiore ad ogni forma di debolezza e di precarietà.
Ribadire la preminenza dell’azione di Dio aiuta ad evitare, scrive Fiducia supplicans, «che un gesto pastorale, così amato e diffuso, sia sottoposto a troppi prerequisiti di carattere morale, i quali, con la pretesa di un controllo, potrebbero porre in ombra la forza incondizionata dell’amore di Dio su cui si fonda il gesto della benedizione» (n. 12). E questo in quanto la benedizione non è un semplice “bene dire”, cioè una conferma dell’azione di qualcuno, ma segno della preminenza di un’azione divina su ogni attività umana.
Per questa ragione, è scritto, che «ogni richiesta deve essere, in ogni modo, valorizzata, accompagnata e ricevuta con gratitudine. Le persone che vengono spontaneamente a chiedere una benedizione mostrano con questa richiesta la loro sincera apertura alla trascendenza, la fiducia del loro cuore che non confida solo nelle proprie forze, il loro bisogno di Dio e il desiderio di uscire dalle anguste misure di questo mondo chiuso nei suoi limiti» (n. 21). Questo desiderio di Dio porta in sé la consapevolezza dell’esistenza di Qualcuno più forte del proprio errore e della propria incapacità di rimanere fedele all’amore di Dio; per questo motivo «quando le persone invocano una benedizione non dovrebbe essere posta un’esaustiva analisi morale come precondizione per poterla conferire. Non si deve richiedere loro una previa perfezione morale» (n. 25), in quanto quest’ultima scaturisce unicamente quando si è raggiunti da un abbraccio più saziante del proprio peccato.
E questo porta ancora ad affermare che «la grazia di Dio, infatti, opera nella vita di coloro che non si pretendono giusti ma si riconoscono umilmente peccatori come tutti. Essa è in grado di orientare ogni cosa secondo i misteriosi ed imprevedibili disegni di Dio. Perciò, con instancabile sapienza e maternità, la Chiesa accoglie tutti coloro che si avvicinano a Dio con cuore umile, accompagnandoli con quegli aiuti spirituali che consentono a tutti di comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro esistenza» (n. 32).
Comprendere la benedizione come affermazione della potenza di Dio sull’inconsistenza del peccato di ogni uomo e donna va su un piano nettamente diverso rispetto al significato di una benedizione rituale. Per questo Fiducia supplicans si auspica che «queste benedizioni non ritualizzate non cessino di essere un semplice gesto che fornisce un mezzo efficace per accrescere la fiducia in Dio da parte delle persone che la chiedono, evitando che diventino un atto liturgico o semi-liturgico, simile a un sacramento. Ciò costituirebbe un grave impoverimento, perché sottoporrebbe un gesto di grande valore nella pietà popolare ad un controllo eccessivo, che priverebbe i ministri della libertà e della spontaneità nell’accompagnamento pastorale della vita delle persone» (n. 36).
Performatività, permanenza, ridondanza: questi sono gli elementi che possono aiutare a comprendere meglio il dinamismo più profondo della benedizione, così come auspicato dalla dichiarazione Fiducia supplicans.
di Alessandro Clemenzia
Consultore presso il Dicastero per la dottrina della fede