Papa Francesco a Trieste
Dal “Generali Convention Center” di Trieste il Papa si è trasferito in piazza Unità d’Italia per presiedere la celebrazione eucaristica domenicale, alla presenza dei partecipanti ai lavori della Settimana sociale e di migliaia di fedeli giunti da ogni parte della città ma anche da altre regioni italiane e da alcuni Paesi confinanti. Di seguito il testo dell’omelia pronunciata dal Pontefice.
Per ridestare la speranza dei cuori affranti e sostenere le fatiche del cammino, Dio sempre ha suscitato profeti in mezzo al suo popolo. Eppure, come ci racconta la Prima Lettura di oggi narrandoci le vicende di Ezechiele, essi hanno trovato spesso un popolo ribelle, «figli testardi e dal cuore indurito» (Ez 2, 4), e sono stati rifiutati.
Anche Gesù fa la stessa esperienza dei profeti. Ritorna a Nazaret, la sua patria, in mezzo alla gente con cui è cresciuto, eppure non viene riconosciuto, viene addirittura rifiutato: «venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1, 11). Il Vangelo ci dice che Gesù «era per loro motivo di scandalo» (Mc 6, 3), ma la parola “scandalo” non si riferisce a qualcosa di osceno o di indecente secondo l’uso che ne facciamo noi oggi; scandalo significa “una pietra di inciampo”, cioè un ostacolo, un impedimento, qualcosa che ti blocca e ti impedisce di andare oltre. Chiediamoci: qual è l’ostacolo che impedisce di credere a Gesù?
Ascoltando i discorsi dei suoi compaesani, vediamo che si fermano solo alla sua storia terrena, alla sua provenienza familiare e, perciò, non riescono a spiegarsi come dal figlio di Giuseppe il falegname, cioè da una persona comune, possa uscire tanta sapienza e perfino la capacità di compiere prodigi. Lo scandalo, allora, è l’umanità di Gesù. L’ostacolo che impedisce a queste persone di riconoscere la presenza di Dio in Gesù è il fatto che Egli è umano, è semplicemente figlio di Giuseppe il carpentiere: come può Dio, onnipotente, rivelarsi nella fragilità della carne di un uomo? Come può un Dio onnipotente e forte, che ha creato la terra e ha liberato il suo popolo dalla schiavitù, come può farsi debole fino a venire nella carne e abbassarsi a lavare i piedi dei discepoli? È questo lo scandalo.
Fratelli e sorelle, una fede fondata su un Dio umano, che si abbassa verso l’umanità, che di essa si prende cura, che si commuove per le nostre ferite, che prende su di se le nostre stanchezze, che si spezza come pane per noi. Un Dio forte e potente, che sta dalla mia parte e mi soddisfa in tutto è attraente; un Dio debole, un Dio che muore sulla croce per amore e chiede anche a me di vincere ogni egoismo e offrire la vita per la salvezza del mondo; e questo, fratelli e sorelle, è uno scandalo.
Eppure, mettendoci davanti al Signore Gesù e posando lo sguardo sulle sfide che ci interpellano, sulle tante problematiche sociali e politiche discusse anche in questa Settimana Sociale, sulla vita concreta della nostra gente e sulle sue fatiche, possiamo dire che oggi abbiamo bisogno proprio di questo scandalo. Abbiamo bisogno dello scandalo della fede. Non abbiamo bisogno di una religiosità chiusa in se stessa, che alza lo sguardo fino al cielo senza preoccuparsi di quanto succede sulla terra e celebra liturgie nel tempio dimenticandosi però della polvere che scorre sulle nostre strade. Ci serve, invece, lo scandalo della fede — abbiamo bisogno dello scandalo della fede —, una fede radicata nel Dio che si è fatto uomo e, perciò, una fede umana, una fede di carne, che entra nella storia, che accarezza la vita della gente, che risana i cuori spezzati, che diventa lievito di speranza e germe di un mondo nuovo. È una fede che sveglia le coscienze dal torpore, che mette il dito nelle piaghe, nelle piaghe della società — ce ne sono tante —, una fede che suscita domande sul futuro dell’uomo e della storia; è una fede inquieta, e noi abbiamo bisogno di vivere una vita inquieta, una fede che si muova da cuore a cuore, una fede che riceva da fuori le problematiche della società, una fede inquieta che aiuta a vincere la mediocrità e l’accidia del cuore, che diventa una spina nella carne di una società spesso anestetizzata e stordita dal consumismo. E su questo mi fermo un po’... Si dice che la società nostra è un po’ anestetizzata e stordita dal consumismo: avete pensato, voi, se il consumismo è entrato nel vostro cuore? Quell’ansia di avere, di avere cose, di averne di più, quell’ansia di sprecare i soldi. Il consumismo è una piaga, è un cancro: ti ammala il cuore, ti fa egoista, ti fa guardare solo te stesso. Fratelli e sorelle, soprattutto, abbiamo bisogno di una fede che spiazza i calcoli dell’egoismo umano, che denuncia il male, che punta il dito contro le ingiustizie, che disturba le trame di chi, all’ombra del potere, gioca sulla pelle dei deboli. E quanti, quanti — lo sappiamo — usano la fede per sfruttare la gente. Quello non è la fede.
Un poeta di questa città, descrivendo in una lirica il suo abituale ritorno a casa di sera, afferma di attraversare una via un po’ oscura, un luogo di degrado dove gli uomini e le merci del porto sono “detriti”, cioè scarti dell’umanità; eppure proprio qui — egli scrive — così, cito: «io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà», perché la prostituta e il marinaio, la donna che litiga e il soldato, «sono tutte creature della vita e del dolore; s’agita in esse, come in me, il Signore» ( U. Saba , «Città vecchia», in Il canzoniere (1900-1954) Edizione definitiva, Torino, Einaudi, 1961). Questo, non dimentichiamolo: Dio si nasconde negli angoli scuri della vita della nostra città, avete pensato a questo? Agli angoli oscuri nella vita della nostra città? La sua presenza si svela proprio nei volti scavati dalla sofferenza e laddove sembra trionfare il degrado. L’infinito di Dio si cela nella miseria umana, il Signore si agita e si rende presente, e si rende una presenza amica proprio nella carne ferita degli ultimi, dei dimenticati, e degli scartati. Lì si manifesta il Signore. E noi, che talvolta ci scandalizziamo inutilmente di tante piccole cose, faremmo bene invece a chiederci: perché dinanzi al male che dilaga, alla vita che viene umiliata, alle problematiche del lavoro, alle sofferenze dei migranti, non ci scandalizziamo? Perché restiamo apatici e indifferenti alle ingiustizie del mondo? Perché non prendiamo a cuore la situazione dei carcerati, che anche da questa città di Trieste si leva come un grido di angoscia? Perché non contempliamo le miserie, il dolore, lo scarto di tanta gente nella città? Abbiamo paura, abbiamo paura di trovare Cristo, lì.
Carissimi, Gesù ha vissuto nella propria carne la profezia della ferialità, entrando nella vita e nelle storie quotidiane del popolo, manifestando la compassione dentro le vicende, e ha manifestato l’essere Dio, che è compassionevole. E per questo, qualcuno si è scandalizzato di Lui, è diventato un ostacolo, è stato rifiutato fino ad essere processato e condannato; eppure, Egli è rimasto fedele alla sua missione, non si è nascosto dietro l’ambiguità, non è sceso a patti con le logiche del potere politico e religioso. Della sua vita ha fatto un’offerta d’amore al Padre. Così anche noi cristiani: siamo chiamati a essere profeti, e testimoni del Regno di Dio, in tutte le situazioni che viviamo, in ogni luogo che abitiamo.
Fratelli e sorelle, da questa città di Trieste, affacciata sull’Europa, crocevia di popoli e culture, terra di frontiera, alimentiamo il sogno di una nuova civiltà fondata sulla pace e sulla fraternità; per favore, non scandalizziamoci di Gesù ma, al contrario, indigniamoci per tutte quelle situazioni in cui la vita viene abbruttita, ferita, e uccisa; portiamo la profezia del Vangelo nella nostra carne, con le nostre scelte prima ancora che con le parole. Quella coerenza fra le scelte e le parole. E a questa Chiesa triestina vorrei dire: avanti! Avanti! Continuate a impegnarvi in prima linea per diffondere il Vangelo della speranza, specialmente verso coloro che arrivano dalla rotta balcanica e verso tutti coloro che, nel corpo o nello spirito, hanno bisogno di essere incoraggiati e consolati. Impegniamoci insieme: perché riscoprendoci amati dal Padre possiamo vivere come fratelli tutti. Tutti fratelli, con quel sorriso dell’accoglienza e della pace dell’anima. Grazie.