Hic sunt leones
Governance africana,
Le recenti proteste del movimento studentesco in Kenya, a seguito dell’approvazione da parte del Parlamento di Nairobi di una legge finanziaria incentrata su un incremento notevole della fiscalità, sono sintomatiche dell’insofferenza in cui versano le giovani generazioni africane. Né può parlarsi di una questione locale, dato che le proteste sono sempre più diffuse. Basti pensare alle manifestazioni in occasione delle recenti presidenziali in Senegal. Stessa cosa in Burundi, Nigeria, Zimbabwe per non parlare dei paesi della fascia saheliana. In un continente in cui l’età media della popolazione è 20 anni sembra difficile che le classi dirigenti possano ignorare a lungo le istanze di quella che di fatto è della maggioranza della popolazione.
Al di là delle situazioni specifiche dei singoli paesi, è sempre più evidente una generale discrasia tra le classi politiche e la società civile. La cosiddetta crisi di legittimità del sistema, la frustrazione per le promesse non mantenute, l’arricchimento indebito delle élites politiche e l’indebolimento delle istituzioni democratiche, sono fattori riscontrabili in modo trasversale in non pochi paesi africani. A protestare sono soprattutto i giovani che twittano e scrivono blog invocando più partecipazione, autodeterminazione e contrasto alla corruzione. Ma per comprendere l’evoluzione di queste dinamiche, di forte valenza sociale, politica ed economica, è importante sottolineare che dagli anni Novanta la cosiddetta “governance” è considerata per un fattore chiave per lo sviluppo sostenibile e la stabilità politica dell’Africa. Questo sulla carta, ma purtroppo, nei rapporti politici e sociali tra governanti e società civile, il concetto di governance viene frainteso dalle autocrazie locali ed esclude l’accrescimento delle istituzioni democratiche e in alcuni casi addirittura ignora l’agenda dei diritti umani.
Di conseguenza, il malcontento popolare, particolarmente quello delle giovani generazioni, è alle stelle nei confronti di un sistema clientelare che acuisce a dismisura l’esclusione sociale. La protesta trova i suoi paladini solitamente all’interno di gruppi non violenti ma che dopo aver subito la repressione statale trovano una loro collocazione ideologica, talvolta molto radicale, all’interno di cellule eversive di matrice jihadista con legami transnazionali. Si tratta di vere e proprie insurrezioni armate, una fenomenologia che interessa, tra gli altri, i Paesi saheliani, ma anche il settore nordorientale della Repubblica Democratica del Congo, il Corno d’Africa e l’area settentrionale del Mozambico.
Questi nuovi soggetti rappresentano la minaccia più seria alla statualità dei singoli paesi. A questo proposito è illuminante la riflessione del politologo Evan Nachtrieb pubblicata recentemente su African Arguments: «Queste sfide hanno spinto i governanti in un angolo in cui non possono né cooptare i loro avversari né cedere alle richieste di smantellare il sistema stesso che li mantiene al potere. L’unica opzione collaudata rimasta quindi è la repressione pesante. Questa risposta, tuttavia, delegittima ulteriormente i governi e incoraggia ulteriori ribellioni, innescando un circolo vizioso e imprevedibile. In Sudan, ad esempio, la violenza non ha risolto il problema della giunta, ma l’ha spinta in un fragile limbo senza reprimere efficacemente le richieste popolari. In Mali, Guinea e Burkina Faso, i colpi di stato sostenuti dal popolo hanno portato alla creazione di governi militari altrettanto inefficaci quanto i loro predecessori nel reprimere la ribellione urbana o rurale. Proteste, ulteriori colpi di stato e conquiste jihadiste sono spesso il risultato di questo ciclo».
È evidente che in una società democratica dove vengono rispettati i diritti umani e soprattutto dove la molteplicità degli interessi contrapposti vengono risolti attraverso il compromesso - qui inteso nell’accezione più nobile del termine: “cum-promittere”, vale a dire promettere assieme - i dissensi verrebbero facilmente ricomposti. Da questo punto di vista il ruolo della Chiesa Cattolica in Africa è importantissimo. Qui il riferimento è soprattutto al ruolo che devono rivestire le conferenze episcopali locali. Emblematico è il contributo offerto in questi giorni da quella keniana in occasione delle violente proteste avvenute nella capitale, Nairobi, e nelle città più grandi del paese come Mombasa e Kisumu. «È imperativo che il governo ascolti attivamente la difficile situazione dei kenioti, fornisca spiegazioni chiare e oneste per le promesse non mantenute e dia priorità alle politiche che alleviano gli oneri socio-economici», hanno dichiarato i vescovi in una nota, precisando che «molte cose rimangono poco chiare sulla politica e sulla direzione del governo; per esempio, l’istruzione, la salute, la condizione dei poveri, le strategie per migliorare l’occupazione».
Da questo si evince che, sebbene vi sia in termini generali un proficuo dialogo con le autorità locali e con le altre confessioni religiose, persistono criticità – che in positivo potremmo definire sfide – dalle quali si evidenziano le differenze in atto tra una soft power per eccellenza quale è appunto la Chiesa Cattolica e l’esecutivo che coltiva interessi non sempre in linea con il magistero sociale. Viene pertanto spontaneo domandarsi: in considerazione del fatto che i paesi africani esibiscono, almeno sul piano formale, ordinamenti “occidentalizzati”, che peraltro non rispecchiano il substrato culturale e storico-antropologico dei loro popoli, non sarebbe forse auspicabile un ripensamento della statualità a partire dal contesto propriamente africano?
Il fatto che in molti casi permanga una sorta di ambiguità, che combina un impianto democratico-pluralista con una sostanza autoritaria, ha il suo fulcro nella progressiva estensione dei poteri presidenziali. Ne consegue spesso una debolezza sia dell’istituzione parlamentare sia, in prospettiva più ampia, dell’applicazione del principio della separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. La pratica delle elezioni multipartitiche incide poco su tale aspetto di fondo.
Ecco che allora, in un continente segnato da grandi contraddizioni, si può concordare che si è in presenza di regimi certamente non transeunti e comunque non preda di una involuzione, ma collocati lungo la linea di faglia tra una evoluzione nella direzione della stato costituzionale democratico o di definitiva consacrazione ad altri modelli che propongono sì prospettive di progresso materiale, ma a prescindere dai vincoli derivanti dell’applicazione dei principi meno graditi alle élite locali dell’impianto liberal-democratico. Nel lento avanzare del processo di integrazione continentale avviato con l’istituzione dell’Area di libero scambio continentale africana (African Continental Free Trade Area – AfCFTA) può forse risiedere la chiave di volta per la composizione dell’alternativa tra una fattiva democrazia costituzionale capace di accogliere le istanze delle giovani generazioni e un’altra autoritaria. Anche se poi l’economia avrà sempre e comunque bisogno di un indirizzo politico in grado di garantire il welfare, tutelando i ceti meno abbienti.
di Giulio Albanese