«Ma lui com’era?», chiede Paolo. «Era gioioso, gli piaceva stare in mezzo alla gente», risponde Pietro. A dialogare su Gesù, in una Roma che era già caput mundi, fra il 64 e il 67, sono colui al quale erano state date «le chiavi del regno dei cieli» e l’apostolo delle genti, un pescatore di Betsaida e un colto ebreo di Tarso convertitosi al cristianesimo. Gli immaginari colloqui che il 30 giugno sera, nell’atrio della Basilica Vaticana, in un piccolo palcoscenico messo su accanto alla Porta Santa, hanno avvinto 650 spettatori, sono stati portati in scena da Michele La Ginestra, che ha scritto Pietro e Paolo a Roma, uno spettacolo teatrale pensato per celebrare i due santi in occasione della loro festa liturgica e inserito in serie di eventi promossi dai vicariati della diocesi di Roma e della Città del Vaticano, in collaborazione con il ministero della Cultura e il Comune di Roma e con Panathlon International.
Il 28 giugno si è svolta una veglia di preghiera nella stessa Basilica di San Pietro, il 29 giugno è stata proposta la camminata Quo vadis, che nell’urbe ha toccato tutti i luoghi legati ai due santi, da San Sebastiano fuori le Mura a Santa Prisca, dal Carcere Mamertino a Santa Maria in Via Lata. Con la regia di Roberto Marafante e le musiche di Emanuele Friello, il 30 giugno, Michele La Ginestra e Augusto Fornari si sono calati nei panni di Pietro e Paolo, dando voce alle loro esperienze di vita, al loro incontro con Cristo e narrando il cammino che li ha condotti nella capitale dell’impero romano. I due apostoli si sono raccontati, confidati e incontrati nella loro quotidianità, lasciando emergere i tratti delle loro diverse personalità, i loro interrogativi, ma anche alcuni fatti tramandati nelle Scritture e i preziosi insegnamenti di Gesù, che, tra dialoghi divertenti, esilaranti e spassosi, sono giunti allo spettatore in un linguaggio spiccio e immediato.
Pietro, intento a conservare il pesce, a lasciarne macerare le interiora per farne garum, a ricordare la pesca miracolosa e la chiamata a essere pescatore di uomini, avrà poi l’idea di fare proprio del pesce il simbolo dei cristiani, Paolo, uomo di lettere, spiegherà a Pietro che la sua intuizione richiama il termine greco ichthys da leggere come un acronimo, «Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore». Paolo, curioso, chiede particolari sul Maestro, Pietro racconta che la maggior parte delle volte era illuminante, con le sue parabole, ma altre volte non era poi così comprensibile, e «se non era che chiedevo io qualche spiegazione — rievoca tra il serie e il faceto — gli altri quando mai?». «Dalla paura alla fede è un attimo» dice poi Paolo commentando quel giorno in cui Pietro camminò sulle acque dopo aver visto Gesù farlo, ma dubitando della sua identità e vacillando di fronte alla prova.
Ciascuno dei due apostoli, insomma, parla di sé e al pubblico rivela debolezze umane e verità di fede. Michele La Ginestra, che, ci dice, ha voluto «raccontare l’umanità che accompagna ogni santità», ha costruito una pièce gradevole, con colloqui verosimili, perché «spesso e volentieri noi ci dimentichiamo che dietro un santo c’è un uomo e perciò la santità è alla portata di tutti». Pietro e Paolo «sono stati uomini che sono incappati in una storia bella da ascoltare e poi da raccontare, anche a costo della vita», spiega, «si sono incontrati, si sono scontrati», come ci fa capire la lettera paolina ai Galati sulla quale La Ginestra e Fornari discutono animatamente in scena. Ma nelle loro storie «quanta umanità», osserva l’autore della rappresentazione teatrale, che scorge nei due santi una «capacità di ascolto che dovrebbe accompagnare la nostra esistenza» e che dovremmo imparare ed avere soprattutto nei riguardi del Signore. Pietro e Paolo, che in scena ci riportano ai primi secoli, ma così vicini a noi nel loro essere uomini, oggi ci danno «un messaggio importantissimo», sottolinea La Ginestra, e cioè che «la Parola di Cristo è per tutti, per l’umanità intera, soprattutto per gli ultimi, per quelli che hanno sbagliato, per i più fragili e per quelli che sono convinti di non valere nulla».
di Tiziana Campisi