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Vite ristrette

 Vite ristrette    ODS-023
06 luglio 2024

«Il carcere è chiusura. Sempre! Cammini e prima o poi davanti a te troverai un muro. Il carcere è limite, è un ostacolo per l’espressione. Il carcere sono anche le sbarre, le chiavi, le porte, i blindati, le divise, le manette, le gabbie, le celle. Il carcere è il luogo della privazione. Di quello che non si ha. Sempre. Non hai l’amore, non hai l’affetto, non hai la libertà, non hai la famiglia, non hai l’umanità. In carcere sei uno qualunque, non hai identità, non hai certezze, non hai né passato né futuro». È così che viene raccontata la realtà del carcere dal di dentro, da chi la vive e sconta la sua pena in un istituto penitenziario della Capitale. La quotidianità della vita ristretta va fatta conoscere, non soltanto le situazioni più eclatanti. Perché è importante sapere come vivono i 62.000 detenuti in un sistema che a malapena ne potrebbe contenere 50.000, con conseguenze drammatiche per la vita di tutti, per la gestione degli spazi e per la loro vivibilità, per la difficoltà ad attivare adeguati percorsi di “trattamento” e a garantire il diritto alla salute.

C’è chi osserva che «troppo facilmente in carcere finiscono gli innocenti» e nutre dubbi che «in questa situazione possa davvero rieducare». Ma è l’impatto della reclusione che viene raccontata. «È devastante l’esperienza che si prova la prima volta che si viene portati in carcere! Ti viene tolto ogni oggetto personale, compresi i lacci delle scarpe e la cintura dei pantaloni, e ti rinchiudono dentro una cella di isolamento. Allora è come se il peso del mondo ti schiacciasse tra quelle fetide mura. Il tempo si dilata e la solitudine ti attanaglia. Una sensazione terribile».

È il primo trauma che può portare a togliersi la vita. «Le reazioni possono essere diverse. Chi ha un carattere forte sopporta, e inizia a sperare. Chi è fragile, invece, non regge e cerca di farla finita. Ritrovarsi rinchiusi destabilizza, perché la privazione della libertà è una condizione innaturale». «Più legami affettivi si hanno — continua —, più la sofferenza ti colpisce come un treno in corsa. Il pensiero di chi hai lasciato fuori inizia a martellarti la mente, giorno e notte. Speri di potere incontrare i tuoi cari. Ma poi, quell’ora con loro vola come fossero pochi secondi. Si sente il rumore delle chiavi aprire le pesanti porte metalliche e una voce perentoria ordinare: “Uscita”. Così, quando si rientra in cella, si sta peggio di prima. Perché il dolore del distacco brucia. Se ti hanno portato qualcosa da casa ne senti l’odore, se da mangiare ne gusti il sapore. La vita ristretta è una non vita, assurda, incomprensibile. Inumana!».

Sono sensazioni che i tanti anni di pena scontati non cancellano. Come «quel tempo infinito scandito dal tintinnare delle pesanti chiavi di ottone che fanno scattare le serrature, mandata dopo mandata, delle porte blindate che chiudono le celle. Ogni santo giorno. Sarà un rumore che ti rimarrà dentro anche quando sarai fuori». «Ci vuole molto coraggio per resistere, molto di più per decidere di farla finita. A volte — aggiunge — mi dispiace per non averne avuto abbastanza ed è un dispiacere che cresce proporzionalmente al tempo che passa, perché sempre più mi pare evidente l’inutilità di questa vita non vita. La pena di morte, riflettendoci bene, non è così crudele!».

«Il carcere bisogna conoscerlo — afferma un altro —. È il tumore maligno della libertà dove si perde tutto. Anche il ricordo di cose semplici, come un piatto di ceramica, un bicchiere di vetro o posate vere. Da reclusi si perde il ricordo della normalità. Chi sta scontando una pena lunga e ha figli finisce per non ricordare il sorriso di una festa di compleanno. Non sente più il calore umano dei suoi cari. Non può dare un buon consiglio da padre a un figlio». E ancora. «Il carcere ti opprime, ti soffoca, perdi i tuoi sentimenti, l’odore della tua casa. Anche i sogni rimangono come “rinchiusi”. Quando si perde una persona cara e non lo puoi salutare, vedi tutto nero. Non c’è gioia, sparisce la felicità. In tutti questi anni ho visto tante persone che non ce l’hanno fatta e si sono suicidate. Ma è il carcere che ti uccide. Questo è reato nel reato. Si arriva a perdere anche la fede. Per lo Stato sono colpevole, sono un ergastolano e morirò in carcere. Sì, perché nessuno mi perdona, anche se sono consapevole di essere cambiato. Di essere un’altra persona. Non dovrebbe essere così!».

Sono le considerazioni di chi ha vissuto un cambiamento profondo, ma ha il destino segnato da “un fine pena mai” e dal “pregiudizio sociale”. «Chi esce, avendo scontato la sua pena, resterà sempre marchiato per quanto ha commesso. Più che una persona sarà il suo “reato che cammina”. Conteranno poco il suo cambiamento, gli anni di carcere scontati, essere diventato un’altra persona. Resterai sempre un “pregiudicato” e questo è ingiusto! Allora a che serve scontare la pena?».

Quanta distanza vi è tra la realtà e quanto stabilisce l’articolo 27 della Costituzione che parla di umanità delle pene «che devono tendere alla rieducazione del condannato». Disinteresse della politica e mancanza di risorse fanno la differenza. Il carcere è il luogo degli scartati. Dei poveri che la società abbandona. Un esempio lo chiarisce: la condizione di una persona anziana che ha scontato per intero la sua pena e che “fuori” non ha più nulla e nessuno che possa accoglierlo. Quel “vuoto” che lo attende oltre le sbarre lo terrorizza. Non sempre trova i servizi sociali che lo accompagnano. Allora ci si perde. Si è spinti a farla finita. Ma quel vuoto avrebbe dovuto essere riempito dalle istituzioni. Non sempre è così.

Il diritto ad una “pena giusta” viene limitato anche da comportamenti che segnano la vita quotidiana nei penitenziari, scadenzata da riti precisi, sempre uguali. Sono i tempi di attesa, la precarietà, l’indeterminatezza, le mancate risposte. «Dipendono — si osserva — da una burocrazia segnata da logiche arcaiche e distanti dalla vita di oggi, dalla carenza di organico, ma anche da una predisposizione a mantenere lo status quo, a resistere alle innovazioni». «Si ricorre alla pratica del rinvio, come se il tempo del detenuto non avesse un valore, mentre noi contiamo ogni minuto che ci separa dal fine pena». Per comprendere cosa sia la detenzione basterebbe trascorrere una decina di minuti in una cella. Allora si capirebbe cosa prova chi vi passa anni!

Il carcere può offrire anche opportunità. Dipende molto dalla direzione o dall’educatore che s’incontra e dall’impegno personale. Lo sottolinea un giovane detenuto che racconta di sé, del suo “tempo ristretto”. «Mi ha dato l’occasione di riflettere e di intraprendere un cambiamento che mi ha consentito di gestire rabbia e disperazione, di intraprendere un sofferto percorso di crescita personale e di rinascita. Ora — afferma — apprezzo di più anche le piccole cose». «Il carcere — conclude — è ricerca di sé, è voglia di vivere, è colloquio con le persone che ami. È la telefonata con la voce della donna con la quale vorresti passare il resto della vita. È scoperta, conoscenza, dubbio. È nuova consapevolezza».

La vita “ristretta” è anche luogo di umanità e sensibilità. Ma ha bisogno di sostegno e accoglienza, soprattutto che sia superato il pregiudizio.

La scelta di Papa Francesco e della Santa Sede di realizzare al carcere femminile della Giudecca il Padiglione per la Biennale di Venezia, coinvolgendo pienamente le detenute, ha aiutato a comprendere quanto la condizione delle carceri ci riguardi tutti. Perché non c’è fraternità senza un rapporto di ascolto e di amicizia.

Il Giubileo del prossimo anno rappresenta un’occasione importante anche per questo. Papa Francesco non solo ha invocato «atti di clemenza e di liberazione» nei confronti dei detenuti, ma ha anche annunciato l’apertura di una Porta Santa in un carcere. Una straordinaria sollecitazione alla fraternità verso questa realtà “scartata” da cogliere per superare i nostri preconcetti, costruire concreta accoglienza e per arricchirsi della grande umanità di cui è portatrice la comunità “ristretta”.

di Roberto Monteforte